Le variazioni imperfette di un uomo
La grande solitudine di questo cielo mi risucchia in sé i pensieri accovacciati accanto al cuore scrostato il ventre trasformato in un filo di lenzuola la fuliggine dei miei sogni sulle mani fragile, la bocca, come mollica il silenzio della neve l’attesa dell’ultima sillaba la frantumazione di ogni ipotesi in polvere labile, nella gola, un canto di preghiera l’arsura dell’inganno l’orma cattiva del distacco lo stagnare di questa vita ed io, che non sarò mai padre, a fissare un punto lontano senza ombra disegna, il dolore, un altro giorno d’eclissi sul mio corpo che tracima in ossa sempre più strette e nude e mi rende croce del mio solstizio che si apre all’orizzonte per sprofondare nella risacca di un sangue che impregna la mia inerzia ed è incapace a contenere, per intero, il mio nome e, con esso, la sua assenza. Vivo in uno spazio neutro, di connubio tra brivido e cenere, al chiaroscuro di un lume dove la mia clessidra, in appoggio all’eterno, ha smesso di cigolare ed è ammutolita per ascoltare, per la prima volta o forse per l’ultima, nelle variazioni imperfette dell’uomo che sono stato, questa mia voce. (1) Ad un amico, malato di AIDS.
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18-05-2015 | Redazione Oceano |
Componimento ricco di metafore e figure retoriche che ben rende l’idea dell’orma cattiva del distacco, l’impotenza dell’autore dinanzi alla malattia dell’amico, e la vanità di ogni ipotesi in questo piatto epilogo di una gioventù sacrificata. |