Il caffè

(Quaranta Enzo)


E’ l’alba e Giovanni è già fuori casa insieme al suo fido asino, Ruscitto, nome tratto dal colore della sua chioma.
Giovanni è un cafone, uno dei tanti nel piccolo paese di Terranova, incastonato nella piana di capitanata, tra il lago di Lesina e le cave di Apricena.
E’ una splendida mattina di maggio e in piazza ci sono già tanti altri braccianti che aspettano il caporale che li condurrà a falciare il grano del padrone. Molti usano il carro del caporale, ma Giovanni, orgoglioso e scontroso, va a lavorare cavalcando il suo fedele ciuco.
Siamo alla fine del diciannovesimo secolo e a Terranova pochi si sono accorti dell’unificazione d’Italia e nessuno ne ha ancora notato le differenze rispetto a prima. In paese esistono solo due categorie di persone, o forse tre. Da un lato ci sono i ricchi, di solito proprietari terrieri, ma anche aristocratici e qualche intellettuale, non più di trenta su una popolazione di circa seimila persone. Dall’altro ci sono i cafoni, i braccianti agricoli, uomini, donne e bambini che lavorano le terre dei ricchi per potergli garantire un costante ed elevato tenore di vita. I poveri contadini a volte vengono pagati con una parte dei prodotti coltivati, principalmente farina e un po’ d’olio, altre volte scelgono di ricevere i soldi; lavorando a cottimo dodici ore al giorno si riesce a guadagnare fino ad una lira in quindici giorni di lavoro. Poi c’è la terza categoria, i caporali, provenienti dalla categoria dei cafoni, sono quelli entrati nelle grazie dei padroni. A loro il compito di scegliere i contadini da far lavorare, quanto pagarli, controllarli e umiliarli durante la giornata.
Esistono anche due distinti appellativi per le principali categorie di cittadini di Terranova. I ricchi vengono appellati “Don”. Il “Don” non ha alcun valore nobiliare, ma serve a distinguerli dall’altra categoria. I contadini, invece, per chiamarsi tra di loro, usano tutti o quasi l’appellativo di “Compà” (compare). Il titolo di compare si acquista quando un membro della famiglia ha partecipato ad uno dei sacramenti del membro di un’altra famiglia, sia esso il battesimo, la cresima, il matrimonio. Si dice che vi è il “San Giovanni” tra le due famiglie (in ricordo del battesimo che San Giovanni fece a Gesù). Viste le parentele che esistono tra le famiglie numerose dei contadini, bene o male tutti erano compari di tutti.
I cafoni non hanno proprietà di terre, né di abitazioni. Le uniche proprietà che hanno sono la prole, e, a volte, chi se lo può permettere, anche un asino o qualche gallina che, chiaramente, entrano tutti a far parte di diritto della famiglia.
Giovanni invece, non ha prole, e la sua famiglia è solo Ruscitto, l’amato asino. Oramai trentenne è fuori età per sposarsi. Orfano da ragazzo, ultimo di dieci fratelli, ha deciso di non ammogliarsi, seppur le proposte non sono mancate. E’ un uomo alto e forte, il volto e le mani scolpite dal sole. E’ stato sempre introverso e burbero, spesso diffidente, e sicuramente questo ha inciso nella sua scelta di non fare famiglia.
Nella piazza dove si ammassano come pecore i poveri cafoni all’alba, è da poco stato aperto un Bar, ad esclusivo appannaggio dei padroni, proprio di fronte alla Chiesa madre. Alle quattro di mattina il bar è chiuso, ma la sera quando tutti i contadini ritornano stremati dal lavoro, sentono il vociare e le risa dei ricchi che chiacchierano tra di loro e ogni tanto ordinano a Mario, il titolare del bar, di portare loro un caffè.
Mentre i contadini stremati passano davanti al bar e senza soffermarsi, si inchinano e tolgono il cappello per salutare i “Don” seduti, Giovanni continua a guardarli con insistenza, col viso crucciato, quasi si sfida.
Uno schiaffo al collo e l’ordine di togliersi il cappello da parte del caporale lo riporta alla realtà, e Giovanni, seppur senza voglia, si adegua al suo rango di cafone.
Sarà la solitudine, sarà il suo pessimo carattere, sarà la voglia di riscatto nei confronti dei genitori, morti perché non curati, non potendosi permettere un medico, sarà che la rivoluzione illuminista ha diffuso il suo profumo anche in terra di capitanata, ma Giovanni, di fronte a quello spettacolo così vergognoso, dove da un lato quattro ricchi si rifocillano all’ombra, mentre dall’altro migliaia di uomini e donne di spaccano la schiena per sopravvivere, matura la sua vendetta.
Già in giro si sente di qualcuno che si ribella al sistema, di qualche intellettuale che parla ai poveri per farli riflettere sulla loro condizione sociale. Persino di un ferroviere che con una locomotiva si è lanciato contro il treno dei nobili; se non fosse stato deragliato in tempo avrebbe ucciso molti aristocratici.
Certo è che Giovanni si chiude ancor di più dentro il suo silenzio, lavorando come un mulo dalla mattina alla sera, rinunciando ai salari in natura, ma chiedendo solo pagamenti in denaro. Riesce a guadagnare sino ad una lira in dieci giorni, lavorando quindici ore ininterrottamente.
Passano le settimane e passano i mesi. Tutti si accorgono che Giovanni è cambiato, che è profondamente dimagrito e ha delle vistose occhiaie. Anche il povero Ruscitto sembra sciupato, dimagrito e stanco. E così, come spesso accade in queste piccole comunità ancora oggi, inizia il chiacchiericcio: forse è malato, forse è impazzito, forse sta meditando una vendetta. “Che dovrà fare mai con tutti i soldi che sta mettendo da parte? Acquisterà delle armi per vendicarsi con i padroni!”, pensano i compari compaesani. “Non può essere che questa la ragione!” E così che una farneticante idea di qualcuno, diventa la verità per tutti. Come spesso avviene in questi casi, la voce si diffonde, e arriva ai caporali e poi ai padroni.
Intanto passano le stagioni, passa l’inverno e passa la primavera, e tutto prosegue come sempre. Giovanni che si ammazza di lavoro e non parla più con nessuno e tutti che controllano le sue mosse, così che i ricchi iniziano ad aver paura, mentre i cafoni iniziano ad avere speranza.
E’ l’alba di una splendida giornata di luglio e tutti radunati in piazza per andare a lavorare si accorgono che Giovanni non è presente. Anche il caporale se ne accorge e va a controllare a casa sua, ma nessuno risponde. Forse Giovanni ha raccolto dei soldi per poter emigrare, come molti a quell’epoca, cercando fortuna in America. Ecco, questa è la reale ragione di tanto lavoro. Tutto torna alla normalità. I ricchi si tranquillizzano e tornano a sorridere e i poveri contadini tornano nel loro stato di pena.
Ma ecco che la sera, mentre i cafoni tornano da lavoro e i benestanti chiacchierano al bar, spunta dalla stradina laterale Giovanni accompagnato dal resto della famiglia, il suo amato Ruscitto. Si dirige verso il bar, dove lega all’apposito anello l’asino e, con fare disinvolto e arrogante entra dentro il bar. Tutti si fermano ad osservare la scena, e in un attimo nella piazza è calato un silenzio tombale.
I ricchi presenti dentro al bar guardano Giovanni profondamente spaventati. Tutti scrutano ogni suo movimento, ogni suo gesto.
Lui si dirige verso il banco e dice a Mario con tono altezzoso e forte : “Fammi un caffè!”
Mario tremante prepara il caffè e glielo serve. Giovanni guarda la tazzina incuriosito, come un bimbo che finalmente ha ricevuto il regalo che aspettava da sempre. Mentre porta la tazza alla bocca è finalmente sereno e fiero di sé; in quel momento si sente uguale ai ricchi del paese.
Beve questa bevanda e non ne apprezza il gusto; è poca e amara, ma non importa, lui ha realizzato il suo sogno, ha lavorato come un mulo per quell’attimo di gloria.
“Quant’è?” chiede Giovanni al barista.
Mario risponde: “Cinque centesimi di lira”.
“Cinque centesimi di lira??!!” urla Giovanni, stupito per il prezzo. Nella sua mente era convinto che quella bevanda ad esclusivo appannaggio dei ricchi, fosse molto costosa. Lui aveva lavorato un anno intero, aveva messo da parte cinquanta lire per quel momento di gloria.
Un po’ deluso per quel prezzo paga e si dirige verso la porta, ma prima di uscire si rivolge a Mario e gli dici: “Sai che devi fare, prepara un secchio di caffè per l’asino!”.

Molti spettatori di allora e lettori di oggi forse si aspettavano un finale diverso, fatto di ribellione, violenza e riscatto sociale. Un dato è certo: da quel giorno a Terranova il bar è stato frequentato indistintamente dai cafoni e dai signori. A volte basta un caffè per fare la rivoluzione!