Elisabetta, storia di reclusione e solitudine

(Preta Maria Concetta)


La vita non è mai inutile, anche se è fatta di vuoto, dolore e miserie, anche se ti senti una sepolta viva. C'è una forza che riaffiora, anche nei momenti disperati, in cui sei sola e vorresti farla finita.
Vivo da dieci anni in questo penitenziario femminile, ne ho viste di tutti i colori. Ne ho subite tante di angherie, da tutti. Dieci anni. Entrai col volto liscio, ora ho mille rughe. Si tratta di un tempo lunghissimo, sottratto alla giovinezza, ai desideri di donna. E' una lenta agonia, un morire dentro di giorno in giorno. Il carcere abbruttisce l'anima, rende astiosi, ti allontana da tutti.
Eppure mi sforzo di vivere, mi aggrappo ad una zattera e annaspo in mezzo ai flutti. Basta anche lo sguardo di una compagna o la luce di un ricordo a risvegliare le mie cellule, a farmi accelerare i battiti del cuore e a ridarmi colore. Mi chiamano "la muta", infatti non parlo mai.
Ognuna di noi, qua dentro, cerca di ritrovare la sensazione di se' nell'automatico consumarsi del tempo. Io lavoro in completo silenzio, faccio quello che devo fare, obbedisco ... senza aprire bocca.
Ma oggi voglio far uscire dal mio corpo la mia voce, sarà la mia evasione da questa lurida cella, da questa non-vita. Non saranno parole che volano, ma che restano. Ho carta, inchiostro e penna ... sono loro gli strumenti della mia libertà. Con loro recupererò il mio passato dal fondo del mio stesso oblio, poi di nuovo il silenzio mi seppellirà.
Fino a ieri vivevo stretta nel presente, i ricordi erano sogno e incubo. Ora, inaspettatamente, il tempo si è schiuso e di nuovo, davanti a me, sono libera di rivolgermi direttamente agli altri che, leggendo queste pagine, saranno mossi dalla volontà di conoscermi, non di giudicare e punire.
Non mi sento una stravaganza della Storia o un'anomalia da registrare in forma scritta, qui non si tratta delle mie memorie: so che potrebbe essere inutile o apparire poco utile conoscere ciò che è stato fatto da me e che, inevitabilmente, si ripeterà. Lo sanno tutti che non insegna niente la Storia, che si ripetono sempre gli stessi errori.
Ma io desidero lasciare una traccia di me, del mio passaggio su questa terra, prima di scomparire del tutto, di sprofondare nel nulla. Non sono orgogliosa del mio passato, delle mie scelte e azioni compiute. Scrivere la mia storia però è un peccato d'orgoglio che accende di febbre il mio animo.
Alcuni antropologi criminali sostengono che le donne commettono meno delitti dell'uomo ma, quando li commettono, sono più crudeli e ostinate e si ravvedono meno dell'uomo.
Se ripenso a ciò che ho fatto, riconosco che ho agito sotto l'impulso di un sentimento forte, incontrollato, che ha travolto le resistenze del mio corpo, dimenticando di essere donna.
La donna è maternità, affetto, accoglienza, amore, pace. Nel suo lessico non c'è posto per parole contrarie come: morte, violenza, durezza. Anch'io ero donna, prima di essere classificata come un criminale.

Tutte le memorie iniziano con un nome. Il mio è Elisabetta. Basti il nome proprio.
Come molti altri, ho condiviso la sorte di un destino nero e cupo, una dei tanti figli della terra del Sud Italia nel dopoguerra. Sono nata proprio tra le macerie, non poteva essere diversamente.
La mia terra: una manciata di bellezza sprecata, lanciata per caso o per sbaglio, dall'alto dei cieli. Una piccola distrazione dei celesti... ed ecco la Calabria, in cui l'abbaglio della perfezione si unisce all'abominio della nefandezza. No, gli dei non ci pensarono molto nel crearla, questa terra maledetta. Però fu baciata dal sole, lambita dal mare ... Madre Natura fu generosa, l'arricchì di monti e sorgenti ... poteva avere tutto per essere un angolo magnifico, un Eden ... e invece ci pensò l'umanità a insudiciarla.
Il mio paese è nascosto in una pozza d'ombra scavata tra i monti e circondato dalla campagna coltivata poco e male. Non so ora come sarà, ne' potrò saperlo mai più. Mi manca tanto, vi ho trascorso gli anni più belli, quelli dell'infanzia.
In famiglia non eravamo poveri, la terra ci sfamava e ci forniva pure qualcosa in più da accatastare e barattare. Eravamo in sei, ma mia madre, quando avevo dodici anni, morì di parto nel dare alla luce il quinto figlio, una femmina, a cui venne addossata la colpa di nascere ed esistere.
Io, prima figlia, mi presi cura di tutti e trascurai me stessa. L'infanzia svanì di colpo, i pensieri persero la loro leggerezza. Crebbi con la sofferenza, la paura e a furia di minacce.
Mio padre era insofferente d'averci attorno me e le mie sorelle, per lui esisteva solo 'u masculu, trattato come un figlio unico. Si risposò abbastanza presto con una vedova di guerra, senza figli, e pensò bene di sbarazzarsi di me, avviando le trattative del mio matrimonio, con un giovane sarto di un vicino paese, che stava per partire per la 'Merica.
Un giorno bussarono al portone. Una signora col vestito domenicale portava in dono 'na guantiera di dolci: era la madre dello sposo, vedova pure lei. Dietro, c'era lui, Nicola, un perfetto sconosciuto. Era l'avvio delle trattative matrimoniali. Io non sapevo niente degli uomini se non dei loro panni sporchi da lavare e degli ordini che davano a noi fimmani. Lo guardavo di sottecchi, ne avevo paura.
Ci pensò lui, mio marito a svezzarmi, nella lontana Novajorca. Avevo tanti sogni in testa e dentro la valigia di cartone, sposina fresca venni sverginata in un letto sudicio di un pensionato per emigranti ... e mi ritrovai reclusa a sforbiciare, rattoppare, scucire e ricucire un'interminabile tela di Penelope, alla luce di un lume a petrolio, sotto lo sguardo di mia suocera e di suo figlio, che la obbediva in tutto e pretendeva di essere obbedito da me, su cui riversava tutti suoi fallimenti e amarezze. Non credo che sapesse cosa significasse amare.
Dovevamo accumulare dollari su dollari, niente bambini. Non c'era tenerezza verso di me, solo la sigla del possesso. D'altronde in quella topaia di periferia, con me e Nicola - diventato Nick - viveva l'onnipresente madre, donna Cuncetta, e per vicini c'erano i suoi parenti che avevano portato usanze, dialetto e volgarità tribali dal loro villaggio aspromontano e che mi gettavano addosso i loro sguardi increduli e interrogativi, trattandomi come una serva. Questa era la mia 'Merica.
Me ne stufai molto presto, dopo neanche un anno. Avevo vent'anni e tanti desideri che la metropoli avrebbe alimentato.
Una notte presi le mie poche bagattelle nascoste nella valigia di cartone e fuggii in silenzio, come fino ad allora ero vissuta. Diedi un ultimo sguardo allo sconosciuto che aveva dormito per un anno nel letto con me, russando così forte da pietrificare l'aria e imponendomi la sua presenza fino a soffocarmi. Il suo corpo riverso occupava tutto il lato destro del letto, sembrava inerte come un morto. Non lo odiavo e non lo amavo, non provavo niente di niente verso di lui.
Mi gettai in strada, presi il tram, non avevo nessuna paura. Le mille luci della città in eterna festa mi stordirono. Mi sentivo libera, per la prima volta e non c'era voluto molto.
Entrai in un bar, conobbi gente ... uomini e donne, si usava darsi del tu anche se io smozzicavo frasi in un pallido slang ... capirono subito che ero un'emigrata, mi offrirono da bere ... mi proposero un lavoro da cameriera ... e da quel momento non fui più la persona che ero stata fino ad allora.
In capo a un anno, divenni un'altra. Dalla famiglia di mio marito, non era venuto nessuno a cercarmi. E neanche dalla mia. Libera come l'aria, assaporavo la vita. Parlavo a voce alta, ridevo, cantavo, ballavo, sognavo. Ormai mi facevo chiamare Liz, come la Taylor. Ero 'na 'mericana. Mi ero ossigenata i capelli, mi truccavo, facevo la manicure, vestivo scollata, usavo tacchi vertiginosi, avevo cambiato modo di parlare e di essere. Avevo seppellito il pudore.
Ah, il pudore! Che cosa sarà mai questo mito con cui c'hanno pasciute? Dopo la maternità, è il più forte sentimento femminile. Tutta l'evoluzione psichica della donna lavora da secoli con energia estrema a creare e consolidare questo sentimento. M'accorsi subito di non possederlo. Ricevevo complimenti, mi puntavano tutti i maschi, io dapprima mi schernivo, poi cominciò a piacermi. Facevo la cassiera e di notte arrotondavo il salario concedendomi a qualche cliente di passaggio. Non fu ne' difficile ne' traumatico. Accadde, semplicemente e pensai bene di ricavarne dei vantaggi.
Non mi sono mai considerata "una di quelle", non ho mai battuto il marciapiede o acceso fuochi ai crocevia o frequentato un bordello. Non ho mai avuto padroni. Se l'ho fatto, è perché l'ho scelto come reazione a un modello di vita imposto. Ho iniziato a prostituirmi per reagire alla noia, per curiosità e perché il primo cliente era belloccio e mi attraeva. Io ero un fiore, avevo i miei desideri di donna. Con lui sfogai il mio istinto, e basta. Con gli altri, fu solo lucro. Mi accorsi che mi pagavano, e bene. Lasciai il lavoro al bar e divenni l'imprenditrice di me stessa.
Nella mia casa, agli orari che preferivo, ricevevo uomini. La clientela si allargò a macchia d'olio, io piacevo e con gli uomini imparai a saperci fare in men che si dica. Sapevo come prenderli, sapevo come convincerli, ero io a comandare, non viceversa. Non fui mai felice. Mi sentivo vuota e apatica mentre mi davo a loro e non vedevo l'ora che finissero per avere i soldi. Ho "fatto la vita" solo per guadagno, per comprarmi un abito, una borsa, una pelliccia, un'automobile. Per accumulare beni materiali. Per essere libera, senza padroni. Ma felice, no.

In galera ci sono arrivata senza rendermene conto. Mi trovavo al massimo del mio fulgore, ma stavo maturando l'idea di mollare per ricrearmi una vita vera, magari una famiglia. In America si può fare, qua te la danno una seconda chance, qua pure l'impossibile diventa possibile.
Me ne sarei comunque andata lontano, magari in California, sotto il suo caldo sole che mi avrebbe ricordato il mio Sud, la mia Calabria (alla quale pensavo sempre) ... quando conobbi lui.
Lui mi parve diverso da tutti. Lui mi voleva salvare dalla perdizione, mi promise mari e monti. Persi letteralmente la testa, io che ero abituata a frenare ogni istinto e a razionalizzare ogni sentimento. A trent'anni non è a come a venti, e forse ero già stanca.
Decidemmo di andarcene insieme. Lui mi aveva redento, diceva di amarmi alla follia, credevo che non mi avrebbe mai rinfacciato ciò che ero stata.
Sbagliato. L'uomo non può ammettere che la sua donna sia stata con altri, che magari abbia ricevuto godimento o piacere in braccia altrui o che semplicemente abbia deciso di vivere liberamente.
Il passato riaffiorava sempre, mi veniva rinfacciato, ero insultata, vilipesa, oltraggiata. Non ero l'angelo del focolare, e non ero neanche la madre dei suoi figli (per una malattia venerea non avrei potuto procreare ... ma questa è un'altra storia). E una sera, invece di finire con la testa spaccata da una bottiglia scheggiata, decisi di spaccargliela io a lui. Con una bottiglia vuota spaccai una testa vuota! Fu un attimo, fatale come lo sono certi momenti inspiegabili. Mi ritrovai allo sbaraglio, senza accorgermene. Immobilizzata sul pavimento, in una pozza di sangue, coi vicini che mi volevano aiutare. Senza una lacrima, muta come un sasso, inanime, svuotata ... mi sono ritrovata in carcere. Ho lasciato che mi facessero tutto quello che c'era da fare. Al processo non fiatai, mi condannarono senza intoppi. Finii in prima pagina, ebbi il mio quarto d'ora di celebrità. Chissà se la famiglia di mio marito lo seppe mai ...

Per anni sono rimasta senza parlare, chiusa nel mio dolore. Ho parlato con gli occhi, ho sorriso, ho dato carezze alle compagne ... ma parlare, mai.
Ora, ho deciso di scrivere di me, non per accusare qualcuno o per prendermi una vendetta ... ma per sentirmi viva ancora una volta, forse l'ultima. Viva nel semplice riaffiorare dei ricordi, ma anche nel tentativo di ripensarmi e di conoscermi attraverso lo specchio della memoria.
La mia è stata una vita a metà, un'esistenza spezzata, infranta, persa. Non so ancora quanto vivrò, non so se sarò viva quando mi scarcereranno - se lo faranno - e cosa farò se mai uscirò da qui. Oggi ho vinto il riserbo, ho aperto la mia gabbia e mi sono svelata. Il giudizio inappellabile degli uomini mi ha condannata, ed io stessa mi sono condannata, al silenzio.
Ma io oggi ho smesso con la reticenza e ciò che ho pensato di me, l'ho scritto. Ora, e mai più. Finalmente mi sono svelata, per non morire inutilmente. Grazie per aver letto la mia breve storia.
Elisabetta, penitenziario femminile di Pittsburgh.