L'ultimo cupido

(Veloce Rita)


Era oramai scesa la notte, anche se, con quel tempo, che fosse stato giorno lo si era capito solo guardando le lancette dell’orologio.
Stava piovendo da tanto oramai, forse due giorni, forse più; a volte silenziosamente, altre urlando con voce di tempesta.
Un uomo se ne stava da solo con i suoi pensieri, nel parco deserto, appoggiato al tronco di un albero, quasi illudendosi d’essersi riparato sotto la sua compatta chioma, con lo sguardo perso sullo scrosciare incessante che si riversava sul manto di foglie staccate dal vento; il viale ne era quasi completamente ricoperto.
Non aveva ombrello, ma un impermeabile con un grande cappuccio che gli scendeva oltre la fronte. Poco più in là, un randagio completamente zuppo, lo osservava incuriosito, dalla sua tana di fortuna, in un vecchio secchio capovolto, dietro una siepe folta che attorniava un piccolo sambuco.
La povera bestiola avrà certamente pensato, perplessa, quale genere di uomo potesse starsene lì, con un tempo simile, tutto da solo all’addiaccio, lasciandosi scivolare la pioggia addosso; forse solo un randagio, come lui.
Su di una panchina poco distante c’era però qualcun altro: un bambino.
Aveva indosso solo una maglietta e, sebbene febbraio sia un mese assai freddo, non pareva risentirsene.
I suoi capelli, neri come la notte, gli gocciolavano sul viso, ma non ne sembrava infastidito, come neppure sembrava avesse intenzione di trovare un riparo.
L’uomo fu colpito da quella strana creatura e un brivido gli attraversò la schiena, lui che si era preso beffa del freddo fino a un momento prima.
Lo osservò brevemente, c’era qualcosa di strano in quella piccola figura, ma forse era colpa degli occhi bagnati; gli annebbiavano sicuramente la vista. In ogni caso non poté più restare lì immobile; doveva andare da quel bambino, capire chi fosse e perché se ne stava lì, sotto la pioggia.
A passo deciso si portò verso di lui, ma, man mano che gli si avvicinava, ciò che vedeva lo lasciava sempre più allibito.
Dalla schiena di quel bambino spuntavano due ali, zuppe, come zuppo era dalla testa ai piedi.
Non sapeva decisamente cosa pensare, certo non che potessero esistere gli angeli o una qualche creatura alata.
Quelle ali doveva essersele attaccate lui stesso, per chissà quale ragione; ma non era periodo di recite natalizie, quindi non gli veniva in mente una spiegazione plausibile.
Senza dubbio quel bambino doveva avere seri problemi: forse era fuggito di casa o da qualche istituto.
Quando gli fu davanti ebbe modo di notare che aveva anche una feretra a tracolla, vuota, ed una sola freccia tra le mani, assieme ad un archetto di legno di ottima manifattura.
Aveva il capo chino, ma si notava comunque che era un bambino di straordinaria bellezza e gentilezza di lineamenti; se quello non era un angelo, era decisamente l’essere che più gli assomigliava.
«Ciao…» fu il saluto a voce bassa, quasi per non intimorirlo e farlo fuggire.
«Io sono Andrè…» continuò porgendogli la mano come si conviene in una presentazione, ma il piccolo alzò il capo e lo guardò in silenzio.
I suoi occhi erano molto grandi, scuri, profondi, umidi forse di pioggia, forse di pianto.
Non si scompose, né intimorì, ne tantomeno rispose. Si limitò a guardarlo negli occhi e per un attimo il timore fu dell’uomo; quasi più un disagio, come se quello sguardo gli stesse penetrando l’anima, profanando pensieri, sogni, segreti.
Si sedette allora accanto a lui e rimase brevemente in silenzio, a testa china anch’egli. Poi ci riprovò:
«Non vuoi dirmi il tuo nome? Io ti ho detto il mio…ma non fa niente…se non vuoi! Cosa fai qui, sotto la pioggia, senza un ombrello, un giubbotto e da solo? Ti è successo qualcosa, sei scappato di casa? Non vuoi dirmi proprio nulla?».
Le domande erano tante, ma fatte con calma, con brevi pause tra di loro, nella speranza che il suo non sembrasse un vero e proprio “terzo grado”e con la voce più rassicurante che gli riuscisse, ma il bambino non sembrava reagire neppure con un espressione del viso che potesse far intuire una risposta.
Andrè aprì l’impermeabile e allungò una metà di esso verso il piccolo, nell’intento di ripararlo e cominciare a fargli riprendere un po’ di tepore, ma la sua manina si sollevò verso di lui per fermare quell’intento.
«Non voglio farti alcun male…credimi…fidati di me…lo so che per te sono solo uno sconosciuto, ma voglio solo riparati dal freddo» disse l’uomo inutilmente.
Il bambino lo guardò nuovamente negli occhi, con quel suo sguardo disarmante e nello stesso tempo enigmatico.
«Sto morendo e non è colpa del freddo o della pioggia!» disse con tono serio e con una voce ferma, rassegnata.
Andrè rimase spiazzato da quelle parole; come poteva un bambino di cinque o sei anni al massimo, parlare di morte e fare una simile affermazione?
«Sei malato?» chiese l’uomo, questa volta con voce tremula, quasi a temerne la risposta.
«Sono solo. L’ultimo della mia specie. I miei fratelli sono andati tutti via già da tanto, tanto tempo. Io sono rimasto perché ci credevo ancora e invece…mi hanno avvelenato».
“L’ultimo della sua specie? Avvelenato? Ma quali assurdità blatera questo povero bambino? Forse ha la febbre alta o forse è mentalmente instabile”. Pensò l’uomo tra se e sé.
«No…non ho febbre e non sono pazzo…non sto delirando, mi hai fatto delle domande…ti sto dando delle risposte!» continuò il piccolo, interagendo con i pensieri dell’uomo.
“Mio Dio, ma legge i miei pensieri…”
«Ma tu…chi sei?» chiese oramai sconvolto da quello strano personaggio.
«Tu credi nell’amore, Andrè?»
«L’amore? Cosa c’entra?»
«Rispondi sempre alle domande con altre domande, Andrè? Dici di voler sapere, pensi di voler capire, ma poi non vuoi ascoltare!»
«Credi nell’amore, Andrè?» fu nuovamente la domanda e l’uomo capì che bisognava seguire il suo strano gioco per capirci qualcosa; non aveva di fronte un bambino come gli altri.
«L’amore è la bugia più spietata della vita, il sogno dell’uomo più improbabile da realizzare, la sua illusione più grande…ma tu sei troppo giovane per capire! No, la mia risposta è no; non credo nell’amore».
C’era amarezza nelle sue parole; l’acidità di chi ha ingoiato troppe delusioni.
«Giovane? Sono tra voi umani da un centinaio d’anni. C’era la guerra e gli altri miei simili si arresero alla brutalità di quegli anni e fuggirono via.
Io restai perché conobbi una donna che mi fece sperare che non tutto fosse perduto. Il suo gesto d’amore fu tale verso un suo simile, che capii che dovevo restare e aiutare la gente a credere ancora nell’amore e nella sua forza di pace, di gioia e di felicità.
Forse le sofferenze degli uomini, in quegli anni, il non avere più nulla, se non la propria vita, li aveva spinti ad usare di più il loro cuore e ovunque vedevo segni di fratellanza e d’amore.
Mi ero illuso di essere riuscito, lì dove i miei fratelli avevano fallito. Ho peccato di superbia e me ne rammarico; ho sottovalutato la parte malvagia dell’umanità.
Mi ero illuso che forse, lavorando senza risparmiare le mie forze, avrei almeno equilibrato le cose, ma tutto cominciò ad essere più difficile.
Il mondo cambiava, la tecnologia si evolveva, l’uomo diveniva sempre più avido, contenzioso e pigro. La situazione cominciò a sfuggirmi di mano.
Ci ho provato e riprovato, giuro, non mi sono mai arreso, ma…alla fine il cuore avvelenato degli uomini, ha avvelenato anche il mio e il mio tempo sta finendo».
“Amore, ali, arco, frecce…no, non può essere…non è possibile che sia Cupido…non è possibile che esista realmente”, pensò Andrè, riflettendo su quello strano personaggio e le sue parole.
“E poi…ha parlato di fratelli…Cupido che io sappia, nella mitologia greca, era uno solo…”
«Cupido? Si, è così che presero a chiamarci, credendoci in realtà ed erroneamente uno solo…» disse il bambino, rispondendo nuovamente ai suoi pensieri.
«E non è l’unica cosa fraintesa: noi avevamo il compito di contrastare il male, aiutando gli uomini a scegliere sempre l’amore. Amore non solo di un uomo verso una donna o viceversa, ma verso ogni simile ed ogni creatura vivente.»
«E ora tu stai morendo per colpa della mancanza d’amore tra gli uomini? Se è così, allora saresti già dovuto esser morto; non è da oggi che gli uomini si odiano, si massacrano e non credono alle scemenze da “14 febbraio”». Disse Andrè con tono quasi infastidito.
Cosa voleva da lui quel bambino? Lui l’amore l’aveva sempre cercato, ci aveva creduto, ma si sentiva ingannato dal fato; Cupido dov’era quando aveva bisogno di sentirsi amato?
Anche questa volta i suoi pensieri erano un libro aperto per quel bambino, ma prima che questi potesse dirgli “non hai capito nulla”un guaito spezzò il suono ritmico della pioggia.
L’uomo girò il viso verso il punto dove sembrava venisse lo straziante lamento ed eccolo nuovamente echeggiare nella notte.
Istintivamente si alzò e si diresse, incuriosito, verso quel bidone capovolto che poco prima, quando era appoggiato al tronco dell’albero, assorto nei suoi pensieri e nella sua solitudine, intravedeva a malapena.
All’interno c’era una cagna che aveva già dato alla luce due cuccioli, ma il terzo era in posizione podalica. Non riusciva a nascere; forse rischiava di morire, forse sarebbero morti anche altri cuccioli pronti per la vita e magari sarebbe morta anche la povera sventurata, condannando i due cuccioli già nati, a morte certa.
La situazione gli si presentò di una tale gravità davanti agli occhi, che l’uomo dimenticò “Cupido” e cominciò a pensare a come potesse aiutare la partoriente.
In principio fu un po’ impacciato, timoroso d’esser morso, ma poi, gli occhi di quella cagna, gli fecero capire che comprendeva le sue nobili intenzioni e si fece più sicuro, riuscendo a far girare il piccino e, così facendo, a far proseguire il parto senza altre complicazioni.
Rimase lì a guardare, fino a ché non capì che era completato e allora gli venne istintivo carezzare la fronte di quell’essere che, pur dopo tanta sofferenza, si stava già dedicando ai suoi piccoli.
La cagna, guardandolo con dei grandissimi occhioni riconoscenti, gli lecco la mano fino a che non fu lui a ritirarla, sorridendo felice d’esser stato utile.
Solo allora, ad Andrè tornò in mente il bambino e la “chiacchierata” che stavano facendo, ma voltandosi verso la panchina, non lo vide più. Si guardò attorno, guardò persino tra i rami degli alberi, ma il suo sguardo aveva perso quella creatura.
Sulla panchina però c’era qualcosa e l’uomo ci ritornò per vedere cosa fosse: era la freccia che “Cupido” teneva tra le mani e un biglietto con su scritto:
“Hai compreso l’amore ora? Ti lascio la mia ultima freccia, è tua, ma…credo proprio di avere ancora tempo davanti a me, quindi me ne serviranno altre…molte altre: vado a prenderle. Addio!”
Si, ora Andrè aveva compreso di cosa parlasse realmente il bambino: un sentimento fatto di piccole-grandi cose; cose che puoi fare ogni giorno a chiunque, uomo, donna o altra creatura vivente e che altrettanto sentimento ti donano di rimando.
Se tutto ciò, come l’olio dilagasse, tutto il mondo sarebbe decisamente migliore:
ecco cos’è l’amore.