L'amore inverso

(Parlato Nunzia)


Mi hanno accompagnata in questa stanza spoglia e fredda senza dirmi una parola.
Di fronte a me c'è una scrivania coperta da pile di fogli; alla sua destra un computer aspetta di essere spento ed intanto produce un rumore sibilante e metallico.
Mi copro le orecchie con le mani, ho fastidio ed ho paura: questo rumore ricorda lo scorrimento guasto di un cancello scardinato.
Ed io non voglio ricordare.
Dal soffitto pende una lampadina priva di paralume, scarna ed essenziale come le cose che continuano ad esistere loro malgrado e malgrado l'incuria di chi le ha volute.
Dietro la scrivania è aperta una finestra e fuori imbrunisce.
Non so da quanto tempo io sia qui ad aspettare e non so cosa o chi stia aspettando.
La luce della lampada è prossima al collasso: dapprima folgorante e l'attimo dopo buia.
Conto i secondi di passaggio dal chiarore all'oscurità come se cantassi la ninna nanna alla mia bambina, stando attenta a che i suoi occhietti assonnati si chiudano con dolcezza.
Siedo su di una sedia di ferro e plastica graffiata, stretta e scomoda. Temo di cadere, allora resto ferma.
Intanto il freddo mi intorpidisce le gambe e le mani.
"Vuoi che chiuda la finestra?"
La voce alle mie spalle si avvicina e mi supera mostrandomi una donna non giovanissima, alta e bionda e col viso spigoloso schiarito da uno sguardo azzurro e lontano.
Non aspetta la mia risposta e chiude la finestra.
Ora nella stanza resta soltanto la luce intermittente della lampadina solitaria.
"Non è possibile lavorare in queste condizioni" continua la donna ed estrae dal cassetto una torcia da tavolo. L'accende.
Penso che abbia dimenticato la mia presenza, non mi stupirei se così fosse.
Ho smesso di stupirmi da troppo tempo.
Sposta le alte pile di fogli da un lato all'altro del ripiano ripetutamente, forse per dimostrare a se stessa che anche la casualità s'arrende ad un ordine necessario.
Oppure sta solo concedendo a me il tempo per parlare.
So di dover dire qualcosa. Sono giunta qui spontaneamente. Eppure mi interrogo e non trovo risposta.
La donna ora sembra assorta nella lettura di un foglio dattiloscritto mentre tamburella con le dita inanellate sulla superficie della scrivania.
Mi guardo le mani intrecciate in grembo e penso che tra poco la mia bimba si sveglierà e vorrà il suo latte.
Sono stata in giro l'intera giornata cercando di racimolare l'indispensabile per comprarle il latte.
Sono tornata a casa schiacciata dal peso della colpa. Quello che ti piega a metà sul busto e toglie forza agli arti.
Ho salito i gradini strusciandomi sul muro sbiancato dai calcinacci caduti.
Giunta alla porta ho udito il suo debole pianto ed ho guardato le mie mani.
Erano vuote.
"Il tuo nome è Eleonora Giusti? Sono la dottoressa Anselmi. Lucia Anselmi."
Bene, ora la donna ha un nome, posso pensarla come ad una persona non proprio sconosciuta.
"Sì, ma da sempre tutti mi chiamano Nora: è breve, accorcia i tempi e la distanza" le rispondo e continuo a non ricordare cos'altro dovrei dirle.
So che c’è altro, ma ho la mente vuota. Resiste un unico pensiero: si sta facendo tardi, troppo tardi, ed i ricordi si rifiutano di raggiungermi.
"Cosa è accaduto, Nora? Vuoi raccontarmi quello che è successo?"
Ecco, temevo che sarebbe giunta la richiesta. Cosa è accaduto? Io non so a cosa lei si stia riferendo. Cosa potrei mai rispondere?
Fisso le mie mani serrate in grembo e poi la guardo.
"Cantavo la ninna nanna alla mia piccola. Lei dormiva ma io continuavo a cantare perché so che le piace e so che il suono della mia voce non le fa fare sogni brutti".
"Non ricordi altro?"
"No." le rispondo e comincio a pensare di essere piombata in un incubo: sicuramente mi sono addormentata sulla culla della mia bambina, mi accade spesso. E’ la stanchezza.
E sto facendo un brutto sogno, uno strano sogno ambientato in una stanza estranea e spoglia e popolata da un'unica donna, personaggio nient'affatto fiabesco, di nome Lucia Anselmi.
Ora apro gli occhi e sparirà tutto: computer sibilante, scrivania ingombra, lampadina morente ed inquisitrice sotto mentite spoglie.
"Nora, voglio aiutarti a ricordare. E' importante che tu lo faccia, è necessario che tu racconti"
Gira intorno alla scrivania e mi viene accanto "telefono e faccio portare una bevanda calda. Sei infreddolita e tesa, ti farà bene"
"Non ho bisogno di nulla. Devo tornare a casa. La mia bambina sarà spaventata!" Sono adirata dal suo atteggiamento condiscendente e falsamente protettivo.
Cosa vuole da me?
Ed intanto penso alla mia piccola, sola ed affamata. Un tremore mi scuote fino a farmi pulsare le tempie. Mi sento morire.
Io ho aperto gli occhi ma l'incubo persiste, nulla è sparito.
Lei mi osserva col suo sguardo trasparente, ritorna alla scrivania e telefona ordinando due tazze di tè caldo.
"Dov'é il padre della bimba, Nora?"
"Non esiste un padre. Noi stiamo benissimo da sole.”
Nei suoi occhi passa un'ombra. Ho inconsapevolmente sfiorato una nota dolente, credo.
"Quindi hai un lavoro che ti permette di provvedere a voi due?"
Mi rabbuio, divento cattiva, la sua domanda è tendenziosa e stupida: vorrebbe darmi ad intendere che non sa?
"Non ho un lavoro e non esiste un padre. Ci è stato strappato tutto!”"
La rabbia ha fatto esplodere le mie parole come proiettili. Ora ho il respiro affannoso. Mi porto una mano al petto per calmare il battito.
"La mia bambina è da sola. Devo andare da lei" e la guardo diritto negli occhi mentre mi alzo dalla sedia.
"Siediti, Nora e sii tranquilla: la bimba è in mani sicure. Si provvederà a tutto ciò di cui ha bisogno. Tu devi solo raccontarmi cosa è accaduto. Poi sarà tutto finito e potrai riabbracciarla".
Dice queste parole toccandomi la spalla.
Mi sottraggo alla sua mano e gliela lascio cadere penzoloni, lungo il fianco. Mi guarda dubbiosa.
Il tocco della spalla è il gesto dell'ipocrita, di colui che si risparmia e si protegge e teme l'abbraccio come una minaccia alla propria integrità.
Nessuno resta integro dopo essere entrato nell'altrui vita. E nessuno rimane inviolato. E' mera illusione pensare di poter salvare il sé quando è già diventato noi.
"Non c'è altro che io possa raccontare. Ho detto tutto quello che ricordo."
Sono stanca, mi risiedo sulla sedia stretta e scomoda e mi sembra abbia trascorso mezza vita in questa stanza. Un'altra metà della mia vita che mi lascia addosso una sostanza lattiginosa: collosa e impenetrabile.
Ci sono cose che non ho mai detto, vissute e ricacciate dietro per alleggerire il peso durante il cammino. Ora tornano.
Stanno tornando tutte, con la chiarezza del presente. E' questo un fatto imbarazzante, poiché mi accade di fare confusione e di mischiare i tempi.
Ma non credo io sia venuta qui per dirle questo.
Lucia Anselmi si avvicina alla finestra e guarda fuori dandomi le spalle.
“Nora, parlami di te. Dimmi tutto quello che non hai mai detto.”
Si volta e mi fissa col suo sguardo lontano.
Non so quale corda intima lei abbia toccato col suo invito essenziale, scarno.
Le parole cominciano a fluire insieme alle immagini.
“Nelle sere invernali viaggiavo in automobile con mio padre e guardavo le finestre illuminate delle case. Mi piaceva immaginare la vita che le animava.
Costruivo sempre la stessa scena. Una famiglia riunita intorno alla tavola imbandita.
In un angolo scoppiettava il caminetto ed i bambini sorridevano con le manine pasticciate di cibo e le gote rosse di calore.
In quel tempo ero anche io una bambina. Una bambina che tornava a casa ogni sera col suo papà.
La mia casa non aveva il camino e consumavamo una cena veloce, in silenzio, prima di andare a letto.
Avevo già cominciato a sognare. I miei sogni erano coloratissimi e luminosi.
Nei miei sogni c’era la luce, nella mia casa regnava la penombra.
Non avevo bambole, non mi piacevano. Il mio compagno fidato era Ghito.
Ghito era un cagnolino di peluche spelacchiato appartenuto alla mia mamma.
A lui confidavo tutto. Ghito sapeva di me già prima che nascessi perché aveva conosciuto la mia mamma ed il suo pelo ne aveva trattenuto l’odore e conservato il calore. Per me.
Ovunque andassi Ghito era stretto a me. Non me ne separavo mai.
“Sei qui perché hai smarrito Ghito, Nora?”
La guardo come se mi stessi svegliando ora, con un sussulto ed un senso di fastidio.
“Ghito mi è stato strappato, insieme ai sogni ed ai colori. E con lui, la mia bambina”
Lei si appoggia alla scrivania. Mi è di fronte ma vicina, molto vicina. I suoi occhi sono lucidi e lo sguardo non mi appare più lontano.
“Io non so proteggere, non sono capace.” Mi guardo le mani. Sono vuote, come sempre.
“ Cosa possiamo fare per te, Nora?”
Sento la mia voce risalire le viscere e respirare nelle vene mentre le rispondo:
“Ha preso la mia bambina. Ha cancellato i miei sogni e mi ha strappato Ghito. Ora io non posso anche solo immaginare una famiglia senza sentire in bocca l’amaro ferroso del sangue”
Lucia Anselmi si avvicina e mi abbraccia.
Mi stringe forte ed io sento sul mio viso l’umido delle sue lacrime.
Nella stanza entra un uomo in divisa. Fa un cenno di saluto col capo e si siede al computer.
Comincia a scrivere sotto dettatura:
“La signora Giusti Eleonora di anni ventisei si recava oggi addì 14 febbraio c.a. presso codesto ufficio del Comando dell’Arma dei Carabinieri, Stazione di Varenna Lago. La stessa presentava regolare denuncia a carico del di lei padre, sig. Giusti Adelmo, con l'accusa di abuso sessuale perpetrato nel tempo..."
Lucia Anselmi s’interrompe e mi guarda: “Puoi abbracciarti, Nora”
Ed io comincio finalmente a piangere.