Il viaggio

(Mandia Giuseppe)


L’appuntamento era stato fissato alle dieci. Lui sarebbe arrivato sulla sua Renault 4 verde scuro lucidata la sera prima; accodata avrebbe avuto almeno un’altra automobile sbuffante fretta al pari di una caffettiera nel suo più alto momento vulcanico.
In piazza Italia il vento feriva la pelle a mo’ di un rasoio al primo uso schiaffeggiando il belvedere caro al Carducci nel tempo che il campanile di San Pietro " immune " signoreggiava tra le fauci ghiaccianti del severo ovale celeste. Le poche gambe in movimento a Perugia in quella domenica di dicembre svicolavano leste.
La partenza era prevista per le undici: destinazione Merano. Al telefono Giorgio si era peritato di ribadire gli ultimi particolari confermando la precisione quasi maniacale che gli apparteneva. Le sue “maniglie mentali” " nel pre-viaggio " rimanevano ancorate al tragitto (studiato a memoria), alle soste in due locande di comprovata ottima ospitalità e al mezzo di locomozione " a suo dire la mia Due Cavalli Charleston non era in grado di portarci sicuri in Alto Adige. Aveva chiosato <> non prima di accondiscendere alla mia richiesta d’inserire nel bauletto dei 45 giri Lolli e De Andrè.
Questo quarantottenne sui generis lo conoscevo da vent’anni: dai tempi del volontariato al WWF, delle scarpinate in montagne sempre diverse, delle gite per i parchi di mezza Italia dove in ogni occasione ci stupiva indossando vestiti o calzando scarpe dallo stile anti-montagna e teneva desta la compagnia con le sue congetture sulla presenza o meno di animali per i boschi, d’insetti per i prati, di persone particolari nei ritrovi: tutti con un ché di misterioso e spesso anche di pericoloso.
Io, minore rispetto al mio amico di otto anni, lasciavo che decidesse le questioni essenziali e non mi ero mai permesso di divellere i suoi puntelli esistenzial-organizzativi. Ci capivamo al volo e, insieme, ci apprestavamo a compiere quest’altra avventura che qualche rischio effettivamente lo presentava.
Eravamo forti di trecento milioni di lire: cifra abile a garantirci un futuro a sole tinte chiare già considerata la magione a due livelli che avevamo in mente di acquistare. Giorgio, convinto di dover lottare per farmi accettare la sua convinzione di stabilirsi al piano nobile, aveva iniziato un panegirico del suo operato, rivendicando perfino la sua maggiore età. Io, divertito, lo assecondavo rintuzzando qua e là le sue argomentazioni finendo poi per rivelargli che avrei in ogni caso scelto il piano di sotto dove mi sentivo meglio perché, come gli ribadii, mi pareva di esser maggiormente legato alla terra da un rapporto di stabilità e mi sarebbe stato possibile allestire il mio agognato jardin d’hiver.
Quando era al volante il mio socio non amava chiacchierare preso dal suo compito pressoché totalmente. Si astraeva " cogitabondo " mentre io ne approfittavo per rimirare le colline umbre innevate a macchie; gli alberi di talune di esse che solitari ingaggiavano battaglie campali con il vento che implacabile tentava di piegarli al suo volere. Mi soffermavo volentieri sulle geometrie eleganti di signorili dimore o sulle irregolarità di modeste abitazioni contadine sparse e piuttosto distanti l’una dall’altra. Immaginavo la vita al loro interno; le donne di tre generazioni aggirarsi in faccende: preparare il pranzo, alimentare costantemente il camino, indaffarate come non fosse un giorno festivo. Mi immedesimavo nel pensare di ognuna: chi in ansia per il fratello e chi per il marito usciti insieme per la caccia o " nel caso della matriarca " nell’immersione in un fare a cadenza lenta con gli occhi lacrimosi, nostalgici di un tempo che si nascondeva ogni istante di più tra le caligini dell’oblio.

Giorgio mi colpì con una leggera gomitata sufficiente tuttavia a riportarmi al nostro vivere. <> annunciò con tonalità degna di uno zelante ferrotranviere. Lo guardai in tralice e, nello stropicciarmi gli occhi per il fastidio della luce improvvisa, mi accorsi di essermi appisolato tra un’osservazione e l’altra del paesaggio smarrito tra i destini altrui. Lui aprì la portiera dalla sua parte. L’aria felina del Verghereto mi obbligò a un immediato richiamo in servizio delle mie “leve vitali”.
Uscimmo dall’auto parcheggiata perfettamente parallela al bordo della carreggiata. Il paesaggio era appenninico, aspro e minaccioso nelle sue asperità visive, con rocce di marna a dominare le pinete, i ricettacoli umani e l’unica esile strada: concessione della natura padrona al genere umano. Il tutto induceva a rifugiarsi entro mura amiche. Giorgio mi precedeva di quattro passi; puntava dritto verso un’abitazione di pietra che non lasciava intendere fosse adibita a locale pubblico.
L’interno, dalla forma irregolarmente rettangolare, era fievolmente illuminato da lampadine anteguerra e, nel penetrante afrore, riportava alla mente un misto tra brasato e tabacco di pipa; vi sopravvivevano vestigia di tavoli e di sedie, un Ficus traballante posto sotto l’unica finestra e troppi spelacchiati animali imbalsamati alle pareti.
Due “anziani” ventenni " dei quali uno ricordava per il pizzo e lo strabismo Napoleone terzo " si contendevano l’Unità e, brindando a Berlinguer, attingevano a più riprese da una bottiglia di Lambrusco smarritasi lassù. Un uomo, annaspante in rughe da erpice, si reggeva a un tavolo impomatato di sugo e fumo risquadernando al rallentatore la sua vita tra le carte di un solitario. Alla cassa la locandiera, nonostante indossasse un desueto peplo, non riusciva a mascherare le sue forme ancora invitanti a un sessantenne imbrillantinato che si atteggiava goffamente a consumato charmeur. Giorgio, acquartierato nel suo pastrano color asfalto, si era eclissato dietro al Corriere della Sera e non avrebbe fatto capolino prima di mezzora mentre io, in attesa del mio immancabile caffè corretto al Maraschino, avevo gli occhi in panne nel viaggio verso le alture rigogliose della cameriera. Con quella bionda al mio fianco avrei avuto garanzia di eterne primavere; nel contempo Giorgio sarebbe ben invecchiato coccolato dai suoi giornali. D’istinto levai lo sguardo da quei sogni; lo diressi verso l’uscita dove un azzimato avventore era intento a prender appunti su una moleskine. Dopo il primo sorso della mia bevanda prediletta, mi voltai nuovamente: l’uomo non figurava più tra le presenze del vano.
Restai sul chi-va-là per alcuni istanti. Ripensai subito dopo al fatto che quegli occhi li avevo già “fotografati” da qualche parte ma non mi risovveniva dove e quando.

Dopo tre ore buone di sosta, intrisi degli aromi più disparati di quel luogo di confine, ci rimettemmo in marcia quando le lingue della sera si facevano largo tra le già flebili testimoni di luce presenti su quello scrimolo di territorio.
<<È così bello vivere e la vita è così dolce che non può essere cattiva>>. Giorgio se ne uscì con questa citazione finendo la frase quasi in falsetto. Aveva infranto il suo dogma sul silenzio che deve osservare l’uomo che guida; la lingua gli si era sciolta dopo una cinquina di Vermouth oltreché per via del succulento pasto che all’atto pratico ci avevano servito.
<> gli chiesi tra una curva e l’altra.
<> si sistemò le lunette tonde sul naso soggiungendo <>.


Quando giungemmo a Bologna le strade di memoria etrusca si predisponevano al riposo. Sparute persone intirizzite saettavano sotto i portici come fossero personaggi di una corsa al riparo scantonanti dopo un numero di metri in un portone per scomparire dal gioco. Noi non partecipavamo alla competizione comportandoci " nonostante il diaccio “assordante” " “come l’asino del pentolaio” nel muovere verso il centro dell’antica Felsina dove, nei pressi della torre della Garisenda, ci attendeva il signor Agneloni dell’omonima pensioncina.


Le vette altoatesine imponenti e accigliate ci tenevano costantemente sotto osservazione risparmiandoci al passaggio solo per il colore della nostra macchina che rappresentava a quelle latitudini un mancato contrasto tonale. Tra i saliscendi montani " che riportavano alle sagome di Rodin " qualche fazzoletto di prato si stendeva delicato quando le linee riuscivano a “strizzar l’occhio” alle forme donatelliane. Al centro della nuova e artistica rappresentazione c’era l’immancabile baita fumante con in fronte due piccole lanterne come di un velluto giallo opalescente. Tra poco si sarebbero aperte le braccia del paesaggio documentandoci il fascino della culla meranese impreziosita da manieri e da masi, da giardini sfavillanti e da filari di uva nonché da alberi ingentiliti da sapienti e civili mani.
La terza marcia della decantata Renault 4 non si dimostrava all’altezza dei complimenti. I lati della via, pesantemente imburrati di neve, tendevano tranelli e minacciavano di allargarsi per far scivolare via quell’utilitaria divenuta importuna. Il cielo " complice cospiratore " aveva iniziato a svestirsi dei suoi panni bianchi, infidi e raggelati.
Tutt’a un tratto un rombo cupo, assoluto, spezzò l’assenza di suoni nella banda sonora. Con gran nerbo tirai giù il finestrino così lasciandolo. Il gelo mi ingiuriò gli zigomi nulla potendo contro la cortina dei miei baffi.
Lo “Squalo” " Citroen Pallas nerofumo " ci appaiò in un nanosecondo. Il mio amico alla guida girò appena il capo verso destra; il contorno della montatura dei suoi occhiali emise un brillio sinistro. Lo sgherro al timone dell’Entità Nera rise odio. Frustò il bolide che aveva in pugno ingolfandoci la fiancata. Brandii il volante buttandomi semisdraiato. Giorgio prese la sua Luger; esplose un solo colpo. Il duo andò a fracassarsi miseramente contro un albero. Vidi la fronte meranese sfilarmi lateralmente. Il mio compagno aveva virato a sinistra.