Il viaggio (etimo e riflessioni)

Il viaggio più emozionante e mai finito è un viaggio nel nostro mondo interiore, un mondo, in molti casi, destinato a rimanere inesplorato

Dal latino viaticum, passando per l’antico francese, arriva a noi. Invero è ciò che serve a nutrirci durante la strada, “via”, una provvista insomma. Tanta letteratura abbonda sul viaggio ed è nota l’espressione “ultimo viaggio” come il fine vita o l’Evento per antonomasia in una nota filosofia degli inizi del ‘900. Dobbiamo menzionare Erodoto che nei suoi viaggi ci racconta curiosità ed altro, di valore antropico, dei popoli visitati e, in età moderna, Volney (un idéologue) che concepì il viaggio come “esplorazione scientifica.”

Il viaggiare non veniva più considerato come una semplice avventura - ciò significa “safari” - (alla fine del XVII secolo) compiuta da uomini assetati dal miraggio di una facile fortuna. Il viaggio cambiava totalmente prospettiva e veniva concepito come esperienza culturale in senso stretto del termine, una vera rivoluzione concettuale: “(occorreva) …elaborare una precisa metodologia di osservazione e di descrizione geografica, antropologica, che servisse a por fine ad un lavoro ancora troppo legato al gusto individuale o a preoccupazioni di carattere extra-scientifico.” (S. Moravia, Il pensiero degli Idéologues, Firenze, La Nuova Italia, 1974, p. 543).
Da qui il lavoro compiuto alla Scuola Normale Parigina dove esistevano veri e propri corsi di “metodologia geografico-antropologica” e, inoltre, studi preparatori per affrontarli: dalla decisione dei luoghi, dalla loro struttura geo-fisica sino alle più disparate abitudini umane, dalla situazione ambientale sino ai regimi politico e religioso dominanti.
Un’indagine unitaria e nuova per comprendere, tramite il viaggiare, globalmente l’uomo. Così si spiega la fervente attività sorta nella sezione geografica dell’Institut nel comparare testi dei viaggiatori precedenti, di rilevarne gli errori poiché viaggio era ormai sinonimo di esigenza scientifica. Ad una concezione esotica veniva ora a contrapporsi una rigorosa, proprio in colui che doveva intraprendere il viaggio.
È assai noto che Montesquieu nelle sue considerazioni attorno ai popoli, si era basato sulle testimonianze storiche degli antichi, quei “fontes antiqui” che ormai erano di fatto non accettati dagli idéologues. Si pensi alla modernità di Volney le cui tesi trovano conferma ancora oggi nell’antropologia. (Rimando al mio Analisi dei Rapports cabanisiani; - Antropologia filosofica, Novi Ligure, 2017).
Quando parliamo di viaggi, il nostro pensiero vola verso luoghi del nostro meraviglioso pianeta che ancora non abbiamo visitato, viaggiare per il mondo è un’esperienza bellissima, ma non è tutto. Esiste infatti anche un altro tipo di viaggio al quale raramente volgiamo la nostra attenzione: è il viaggio dentro noi stessi, dove un mondo ancora più vasto di quello che c’è fuori aspetta di essere scoperto e valorizzato.
Il viaggio più emozionante e mai finito è un viaggio nel nostro mondo interiore, un mondo, in molti casi, destinato a rimanere inesplorato. Dentro di noi ci sono paesaggi di una ricchezza insospettabile e spesso non ne siamo consapevoli, oppure, anche se lo sappiamo, ne abbiamo timore, abbiamo paura di scoprire quello che tale esplorazione potrebbe rivelarci. Paradossalmente ci sentiamo molto più sicuri a visitare i luoghi più impervi della Terra, piuttosto che la nostra interiorità, ed è per questo che, spesso, ci rinunciamo commettendo un grave errore. Tuttavia è nel nostro modo interiore che risiede la nostra vera natura e, con essa, la nostra possibilità di essere felici. Se non andremo a conoscerlo, vivremo solo a metà.
Indaghiamo dunque con onestà anche brutale verso noi stessi, i nostri paesaggi interiori e, con essi, le nostre risorse nascoste, i nostri talenti inespressi, i nostri desideri più profondi, le nostre capacità. In questo viaggio apparentemente solitario saremo obbligati a fare incontri che ci arricchiranno comunque anche laddove ci sembrerà il contrario. Ciò che conta è lasciare che questi incontri si compiano, non importa dove ci porteranno. Bisogna saper rischiare, mettersi in gioco perché la posta è alta. Possiamo vincere la scoperta di noi e dell’altro. L’umanità chiama e noi dobbiamo rispondere, Itaca è solo un approdo. Altre isole e altre ancora sono lì selvagge e in attesa di noi.

Non rinunciare al viaggio dentro di noi, per riappropriarci di noi stessi attraverso una “rinuncia di sovranità” che possa stabilire un nesso tra di noi e la parte di circostante che vediamo. Ma questo viaggio si svolge in acque amniotiche. Il velo della nostra personale placenta, che il circostante ci ha impresso addosso al momento della nostra venuta al mondo, ci limita. Dopotutto aprirsi agli altri espone a molti rischi, ma esporci, nudi, a noi stessi ne comporta di più. Come sopportare la faccia torva di noi stessi che ci aspetta, in anse che credevamo perse. Tutto invece s’è conservato, rimosso dietro stive improvvisate.


Dietro un dolore, una miseria, un improvviso sussulto di grandezza. E gli altri… è così facile andare loro incontro, restarne delusi o feriti. O graziati di un breve riposo, guardando insieme quell’essere in fieri e poter affidarne a qualcun altro la vista di quell’essere: nulla di più sublime e coraggioso. Ma questo comporta accettare di mettersi in gioco.

E cosa offrire in cambio, se non stracciate vele che riprendano il viaggio. Non è forse, la vita, essa stessa viaggio, e brevi approdi, inesausto libeccio? Ed è un viaggio infinito, a volte tortuoso, colmo di pieni e di vuoti, ascese e cadute, una lenta e a volte veloce costruzione di una cattedrale i cui archi congiungeranno nel tempo le cause alle loro lontane conseguenze, dando vita ad una complessa basilica con innumerevoli navate. Ma nella sua complessità si nascondono minuziosi affreschi di vita, così come “la vera natura” viene dissimulata dietro gesti consueti.
E la vita continua, più forte del dolore, à la Recherche “Ogni personaggio della ricerca sono io”, chiosava Marcel Proust.
Siamo tutti Ulisse e partiamo tutti da Itaca, il porto e l’approdo sicuro dove molti vogliono tornare dopo la loro odissea, l’avventura della vita, delle tentazioni, dei dubbi, di inutili certezze, di lotte, di inquietudini spesso non risolte.
Ma siamo tutti anche Penelope e il suo viaggio fermo, intimo, solitario, figura femminile disegnata dal modello maschile e relegata al ruolo che la società del tempo le ha assegnato dopo la società matriarcale. E il risultato di questa cultura arcaica è quasi la negazione del sé per corrispondere in pieno al compito assegnatole quale prototipo di moglie fedele e madre, satellite e non Sole che brilli di luce propria.
E dopo tanto veleggiare, Itaca, a volte, può non rappresentare più il nostro faro di riferimento o più semplicemente possiamo non riconoscerci più, anche piacevolmente, in quell’essere partito tanto tempo prima. Possiamo in qualche caso parlare di evoluzione o, eccezionalmente, di illuminazione.

Posted

26 Aug 2020

Pensieri e riflessioni


Enrico Marco Cipollini



Foto dal web





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