Un quarto alle tre, ed ancora una volta il coinvolgente mondo di Maria Teresa Infante La Marca ci regala sensazioni uniche, affascinanti e intriganti che si lasciano svelare a poco a poco. Eppure in questa nuova creatura c’è qualcosa di diverso, che va oltre la pur ammaliante e seducente metafora, tipica del suo linguaggio poetico e delle sue sferzate ironiche e spiazzanti. C’è quasi una metafisica che si apre al lirismo del fascino notturno, c’è una proiezione verso l’ignoto, il subconscio, l’irreale, il tutto sublimato dal desiderio di un poetare che non passi più dalla realtà ma un poetare che passa attraverso la finestra della sua anima.
La sua è la contemplazione della notte in cui magia e mistero assumono le caratteristiche del suo pensiero, del suo essere se stessa denudata dal magma illusorio e assordante del giorno. Una notte di cui la poetessa ne respira lo stupore, ne penetra il vuoto, lo riempie col suo monologo lasciando aleggiare un’atmosfera cupa, onirica, dove mettersi a nudo ed attraversare i meandri della sua anima. Oserei dire che la notte ripercorre il sentiero di agostiniana memoria trasformandosi quasi in confessione, autocoscienza, diventando così, il luogo-non luogo, surreale, onirico, atemporale in cui riflettere la propria ansia di vita. E il dialogo con la notte si rivela in ogni pagina dove i versi, marcati, caratterizzanti, diventano pure vibrazioni emotive, anche se a volte, paiono “spezzarsi” scompensarsi in un incessante ed affabulante effetto lirico.
L’anima della poetessa sembra frantumarsi in mille pezzi che lei lascia coagulare poi in versi potenti, autentici, che viaggiano negli spazi invisibili della sua mente e diventano attimi, espressioni lucide e balenanti di apparenti nonsense, di luoghi mentali narrativi, di affondi simbolici e surreali, o, di contro, di intensi sprazzi di malinconia tenuta a lungo a bada. È come se la poetessa avesse incontrato per la prima volta, “ il male di vivere” pur conoscendolo bene e pur avendolo racchiuso tante volte nelle sue precedenti opere, un malessere esistenziale, consequenziale ad una realtà distopica e malata, un malessere non più universale ma una travagliata inquietudine personale. Un disagio esistenziale che vuole incontrare volutamente di notte, un quarto alle tre, quando l’illusione ottica del giorno scompare, quando le apparenze vuote e ingannevoli della luce, lasciano gli occhi liberi di vedere senza i filtri esterni, quando il silenzio lascia affiorare completamente la fragile consapevolezza di sé.
Ed è in queste ore che le sue liriche, diventano “sostanza” essenza, vita propria per “Colui che sa ascoltare l’urlo muto e avanza nell’oltre,” diventano richiami stigmatizzati, stringati ma potenti, diventano visioni oniriche, kafkiane in cui attraverso un respiro infinito come: La notte è una stella che accade, riesci a penetrare la bellezza e il mistero dell’universo! Ed è in quell’accade che si coagula netto e preciso, tutto il mistero dell’esistenza umana, c’è l’uomo – un accaduto – un caso – un’essenza fugace ma crocifissa all’esistenza. Versi la cui potenza lirica suscita emozioni fortissime, evoca immagini, incasella “accaduti,” dando anima, sangue e sostanza a un libro in cui la brevità non è eccentricità, disequilibrio ma la chiave di volta che apre all’intimità, all’interpretazione personale, lascia il posto al lettore affinché ne tragga il senso. Maria Teresa Infante La Marca lascia sul foglio, breve, stringata, visionaria, intraducibile a volte, una vivificante traccia dell’illogicità negativa dell’esistente, che nessun libro di filosofia riuscirebbe a spiegare meglio dei suoi brevi ma eccezionali versi, versi che hanno la capacità di dare visività e capienza eidetica alla narrazione del nostro tempo.
Dote non certo in possesso di chiunque! Sono poesie le sue che, se per un un verso richiamano la poetica di Alfonso Brezmes e le sue poesie dove “non accade nulla,” laddove entrambi i poeti con pochi versi riescono a penetrare e narrare la realtà attraverso una corroborata forza simbolica, per altri se ne stacca completamente perché Maria Teresa Infante ha un affondo più critico, viscerale nelle sue brevi note che suscitano visioni mentali irripetibili e incidono in modo più scarnificato, lacerante e diretto sui concetti e sulla realtà esistenziale. La notte per la nostra eclettica poetessa è il luogo privilegiato, è a notte da definire/ quadrando il cerchio/ del mutamento. La notte plagia il definire ma non lo inquadra, perché il definire si evolve, cambia, muta come l’animo umano, impossibile da codificare… riflessione potente, enigma insoluto. E la notte, scevra da qualsiasi parvenza ed illusione diurna, diventa per la poetessa, non solo un viaggio alla ricerca di ciò che di ineffabile racchiude la sua intimità non svelata ma soprattutto un viaggio alla ricerca della verità perché anche lei convinta che “L’unico scopo dell’esistenza umana è di accendere una luce nell’oscurità” (C.G. Jung)
E Un quarto alle tre – come altre opere della poetessa, accende un’altra piccola ma indelebile luce nel buio offuscato del giorno, lasciandosi svelare con grande emozione perché è di notte che si torna a fiorire ad essere solo se stessi. Il domani, per la poetessa, vuol dire tornare a vedere la realtà e le cose come le ombre che scorrono sulla parete della caverna del mito di Platone, per cui domani/ riprenderemo a morire a essere altro ma non più noi stessi. Per Maria Teresa Infante La Marca, Un quarto alle tre è la stupenda eccezione che conferma la regola dell’inimitabile e indiscutibile bravura della poetessa!