Il bosco: luogo filosofico letterario ed allegoria dell’esistenza

Dal lucus romano alla Lichtung heideggeriana: metamorfosi del bosco nella storia del pensiero

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Il bosco, fin dall’antichità, assume varie connotazioni e soprattutto si collega alla ritualità religiosa: il monte Citerone, in Grecia, era la dimensione del culto di Dioniso e delle feste delle Baccanti; il lucus romano ospitava nei penetralia i templi degli dei che hanno conservato nel tempo la denominazione silvana di provenienza. Nel mondo medievale esso conserva il carattere di dimensione separata, dove avvengono i miracoli agiografici delle vittorie del Santo sugli animali selvaggi, o le prove del cavaliere alla ricerca della sua vera identità.

La tematica delle avventure del cavaliere nella dimensione boschiva, riflesso della società aristocratica feudale, entra nell’arte e nella letteratura con il romanzo cavalleresco, che diviene uno specifico genere letterario. Essa fonda una tradizione, ripresa anche nell’età moderna con i poemi di Boiardo ed Ariosto (Orlando innamorato; Orlando Furioso) e con la narrativa di Calvino (Il castello e la Taverna dei destini incrociati). Perfino nel Novecento questa materia torna a fare la sua comparsa nella silloge poetica di Giorgio Caproni, Il Conte di Kevenhuller: il Conte convoca i cavalieri per catturare una grande bestia che porta intorno violenza e distruzione.

Sembra che Caproni, già con questo proclama, posto ad esergo della sezione poetica, voglia mettersi sulla scia della tradizione cavalleresca con i suoi noti elementi di riferimento: la figura del cavaliere tenuto a rispettare i doveri del suo status, l’ambiente impervio della selva in cui si svolgono le sue azioni, la ricerca di avventure in cui mettersi alla prova. Il mondo della cavalleria continua a suscitare attrattive per le sue potenzialità fantastiche ed allegoriche, ma la tradizione subisce un ammodernamento, subisce, secondo il critico americano N. Frye (Anatomia della critica), un trattamento ironico, con risultati opposti a quelli attesi. Il poeta, alla luce del suo vissuto storico esistenziale, non riesce a seguire le norme del canone prescelto ed è costretto a deviare. Già l’Ariosto fa di quella materia un guscio e un apparato in cui immettere la dimensione dell’uomo universale (Caretti: Ariosto e Tasso). Il cavaliere si universalizza e diventa in astratto l’uomo alle prese con il suo destino; la quete si spoglia di tutti gli ornamenti del cerimoniale per conservare, nel grado zero, il fine essenziale, il senso della missione dell’uomo. Il bosco, come sentiero di riflessione destinale, non differisce da altri sentieri, ad esempio il deserto di Buzzati (Il deserto dei Tartari), in quanto luogo limite ed escatologico, al di fuori della vita comune.

Anche la selva, luogo letterario e mitico, si modifica, rispondendo alle varie problematiche dell’esistenza; la selva dantesca conserva le due connotazioni di locus horridus e locus amoenus, corrispondenti alle due dimensioni etiche, quella infernale dei dannati e quella edenica della purgazione. Nell’Ariosto la selva conserva in superficie l’apparato meraviglioso del romanzo cavalleresco tardo medievale (Chretien de Troie; Ivano, Lancillotto, Perceval; si anima di presenze e sorprese, lo scenario è movimentato, l’intrigo selvaggio non scoraggia, ma stimola l’avventura tra prove eroiche e colpi di scena romanzeschi; la selva nel suo proteiforme aspetto dà illusioni ed ideali, si presta alla varietà dell’azione, tra incontri e scontri, silenzi ristoratori tra l’erba e momenti di dense convergenze. Il duello, con il suo rituale di formule verbali e schermaglia gestuale, esprime tutta l’energia interna del cavaliere, che si batte onorevolmente. Ma, sempre deviando dal canone classico, l’Ariosto abbassa le finalità etico-religiose dell’antico cavaliere e le ricopre con l’ironia di chi conosce bene la vita con le sue vicissitudini e i suoi fallimenti. In Calvino si sente solo l’eco dell’avventura nel bosco, in quanto lo scenario ripreso è quello della taverna in cui i cavalieri, reduci dal percorso, confrontano i loro destini. È scomparsa anche la voce e il confronto si svolge sulle figure dei tarocchi, dispiegati opportunamente, in modo da far coincidere ogni tappa del proprio destino con la scena impressa sulla carta. Lo scenario si interiorizza, al movimento subentra l’atto riflessivo della narrazione; ognuno, nelle scelte della carta, vuole evidenziare le scelte della propria vita, in un incrocio tra desiderio personale e superiore predestinazione. Nel silenzio della rammemorante riflessione, le carte si animano ed offrono un pittoresco mosaico, come se la vita evocata non avesse perso il piacere dell’avventura, ma l’interesse è rivolto all’incrocio dei destini che tiene l’uomo sospeso ed incredulo.

Nella boscaglia di Caproni vige un’atmosfera grigia, priva di immagini e colori, di eventi e sorprese. Non accade nulla che soddisfi la ricerca, la stessa bestia che ha mosso la caccia, non appare e di lei non c’è traccia, non si conoscono forma e identità. In una landa desertica e umbratile il cavaliere volge lo sguardo da ogni parte nell’attesa di qualche apparizione all’orizzonte; ormai ha attraversato tanta terra, è giunto all’ultimo lembo in un territorio di confine ed è stanco del percorso infruttuoso. Ricorrono termini come “landa, bosco, buio, foresta, frana, alluvione” per indicare un luogo inospitale, quasi simile ad un precipizio o alla morte. Neppure la selva dantesca, ugualmente letale, è così insuperabile per il pellegrino che voglia rimettersi sulla retta via, affrontando le prove atte a riabilitarlo. Le connotazioni estreme del paesaggio ricordano l’esemplarità allegorica del percorso leopardiano dell’Islandese. (Dialogo della Natura e un Islandese) Anche l’Islandese percorre tutta la terra, non risparmiandosi l’esperienza dei luoghi più inospitali, per soddisfare la sua missione. Alla fine l’immagine statuaria della Natura gli appare e gli rivela la triste sentenza del ciclo dell’esistenza. Il cavaliere di Caproni neppure negli estremi confini della terra ha la fortuna di vedere qualche apparizione, lo sguardo si muove a vuoto in un indistinto grigiore senza forme su cui appoggiarsi.

Eppure l’attesa del cavaliere nella radura non cessa e, proprio dove i sentieri si interrompono, si avverte il pronostico di possibilità arcane, di inversioni e mutamenti. L’attesa non conserva le certezze della vecchia metafisica, bensì si avvolge in un mistero senza bordi in cui gli antipodi e le antinomie possono sussistere. Il richiamo va ad alcune filosofie contemporanee che, proprio sul crollo delle verità consunte del passato, hanno posto le tracce profetiche di un futuro lontano ancorché indecifrabile. L’uomo, nella solitudine della radura, in attesa di un Essere che riempia il vuoto, è immagine significativa di Heidegger (Lettera sull’Umanismo) ben evocata dalla poesia di Caproni. Nel Conte di Kevenhuller e ne Il franco cacciatore, infatti, i paesaggi sono proprio radure, luoghi che, nel loro nulla incolore, sembrano celare una dimensione sacra originaria, precedente la nascita del divino e delle conseguenti dottrine regolative ed etiche. La civiltà, con l’eccesso di proclami e comunicazioni, ha soffocato ogni essenza ed ora dal vuoto delle sue ceneri si attendono nuove risposte e nuovi dei. La radura, luogo di mezza luce, che si apre nel fitto della selva, la lichtung del filosofo tedesco, è il luogo che conserva impressa l’arcaica sacralità, in un gioco sospeso tra manifestazione e nascondimento.

La rammemorazione heideggeriana della definizione per antifrasi del lucus come “eo dictus, quod minime luceat”, (Varrone: De lingua latina; Servio: Ad Aen.I), consente di rappresentare la verità dell’essere come mistero che esclude un’illuminazione totale e si protegge sotto un velo nascondente. (Leonardo Amoroso: La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo).
La ricerca nella boscaglia assume un significato allegorico che non rimanda ad un canone certo e noto, ma certamente ad un’alterità metafisica ancora operante. Il cavaliere di Caproni sembra conservare le promesse e le fedi dell’antico cavaliere, in nome delle quali si batte, ma trova un mondo non più adatto al suo statuto, un mondo stravolto, come già accadeva a don Chisciotte, con sentieri che non approdano a nulla e nessun sovrano che riconosca i suoi meriti. L’allegoria boschiva diventa ricerca metafisica, che non ha bisogno di referenti storici, ma nega la storia con le visibili macerie che ha accumulato, per condurre oltre i luoghi giurisdizionali, ad un grado zero e primo della vicenda umana.

Verso dove è proiettato il viaggio di questo uomo nella boscaglia? Un altro mondo, il nulla, la morte, una verità? Certamente si tratta, come si evince dalla terminologia estrema ed inconsueta, di un luogo-tempo altro, un Nessunluogo dalle infinite possibilità, che può essere espresso solo con antinomie, ossimori, aforismi di un pensiero assurdo e fuor di logica.
“...Non si può più dire chi sia il perseguitato e chi il persecutore; Lei cerca davanti a sé ciò che ha lasciato alle spalle; Lei non potrà mai arrivare, mi creda, dov’è già arrivato; Sparai. Forse sparò lui...S’io caddi (chi cadde), non l’ho saputo mai.” (Franco cacciatore).
“Sicuramente cadrà, anche se non cadrà mai; La preda che ti uccide uccisa” (Conte di Kevenhuller).
Sono antinomie che possono dare l’idea di un’ultra filosofia in cui si inerpica il cacciatore di Caproni. Solo il groviglio della selva di Zanzotto, ripetendosi mimeticamente nel labirinto linguistico, può, allo stesso modo, significare lo stravolgimento della civiltà dell’uomo in parallelo con la regressiva dimensione del lucus. (A. Zanzotto: Galateo in bosco).

Posted

01 Feb 2025

Storia e cultura


Elisa Lizzi



Foto dal web



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