Amore di Cristo che già qui nel mondo
Comincia ed insegna il viver più buono…
Da: Poesie religiose, 1936 – 1947
Che la poesia contemporanea volga lo sguardo nella direzione della spiritualità al fine di operare una rifondazione dell’umanesimo, mi pare, in questo nostro tempo, un fatto rilevante e culturalmente impegnativo.
La spiritualità, infatti, non è una alienazione dalla realtà, ma un modo di essere nel mondo per cambiarlo. Uno dei poeti che nel ‘900 ha contribuito a dare un forte impulso a questa esigenza del cambiamento attraverso il richiamo alla spiritualità umana è stato sicuramente Clemente Rebora, la cui poetica, spesso malamente interpretata a causa di pregiudiziali ideologiche - (ricordiamo che Rebora si è convertito al cristianesimo divenendo sacerdote) – contiene in sé orizzonti di lucida ideazione nella direzione di una ermeneutica della storia capace di dare ancora oggi nuovi impulsi per la costruzione di un secondo umanesimo.
Io ritengo che quella di Rebora, anche se religiosamente ispirata, non debba essere considerata una poesia di genere, ossia solo poesia mistica e religiosa, e quindi destinata a credenti; essa vive anche di un respiro laico, atteso che tutti gli aspetti del mistero della vita e che riguardano ogni uomo sono in essa presenti: il dolore, la gioia, la sofferenza, la pace, il bene, il male, la ricerca del senso, la fede, l’amore, la libertà, la felicità, il significato del tempo, l’attesa, il fine ultimo dell’esistenza e la speranza. Pertanto, il religioso che caratterizza la poetica di Rebora affonda le radici in una spiritualità di respiro umano universale e che va al di là di fedi religiose, presentandosi come uno “spazio di teologia positiva” rivolto a tutti, anche a lettori diversamente ispirati e a non credenti.
La domanda fondamentale da cui partire è: dove nasce e come si costituisce nella poesia di Clemente Rebora “la spiritualità”? La risposta risulta al contempo semplice ed esigente: essa nasce dalla riscoperta da parte del poeta del valore della fede come rapporto personale con il Dio di Gesù Cristo: da ciò egli trae uno stile di vita interiore che si conforma personalmente a quello di Gesù, che traluce dai versi e da cui consegue esteriormente la responsabilità etica in vista dell’altro:
…Ho trovato Chi prima mi ha amato/ E mi ama e mi lava, nel Sangue che è fuoco,/ Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito,/ L’Amore che dona l’Amore,/ L’Amore che vive ben dentro nel cuore./ Amore di Cristo che già qui nel mondo/ Comincia ed insegna il viver più buono…
In questa versi c’è un chiaro processo di movimento verso la dimensione teologale dell’esistenza. Il poeta supera il limite di una concezione immanentistica della vita che pensa di trovare solo in se stessa ogni risposta e speranza; Rebora, invece, prende alla fine atto che dietro tale visione di terrestrità non c’è altro che il nulla e lo svanire delle cose e del tempo.
Se il primo Rebora del tempo della guerra vive atteggiamenti illuministici, il Rebora degli anni 1936-1947 intuisce che la modernità ha creato una visione unidimensionale dell’uomo, cadendo in un grosso errore. Il poeta capisce, in buona sostanza, che non può esserci vero ed autentico umanesimo se la vita dell’uomo non scopre la dimensione dello spirito che apre alla trascendenza, a tutti quei beni immateriali che rientrano nell’ambito di ciò che è bello, vero, buono e giusto. Insomma, il secondo Rebora intuisce che togliere Dio dalla vita dell’uomo significa affermare una negazione radicale della dimensione del trascendente, proiettando le speranze della società in un assoluto antropocentrismo, cosicché - dice il poeta - “sulla terra… tutto finisce, travolto, in ambascia”.
La lezione che viene dalla poesia di Rebora è dunque nella direzione di un rapporto tra poesia e spiritualità quale punto di forza per un cambiamento della realtà. Il riferimento a Cristo ha fatto pensare ai critici soltanto ad un discorso di fede limitato ai credenti; in realtà ci troviamo di fronte ad una “valorizzazione dell’umano” che Cristo ha incarnato e ancora oggi incarna nella storia: l’uomo Gesù infatti, quale appare dai vangeli, ha fatto leva sui sentimenti dell’umano quali forza di cambiamento: ha dimostrato commozione e grande compassione verso le folle, ha pianto e versato lacrime, ha provato paura e angoscia , ha manifestato segni di impazienza verso i suoi discepoli, ha provato le tentazioni dei beni materiali, della gloria e del potere, come ogni essere umano, ha più volte reagito con sdegno e battute pungenti, ha lanciato anche invettive e rimproveri; ha provato gioia tristezza e collera.