Il fiume di pietre

(Parlato Nunzia)


"Don... Don..." Il suono greve dei rintocchi del campanile, svettante nella penombra crepuscolare, azzerava del tutto il rumore. un tonfo ripetuto, delle pesanti scarpe di Laura. L'aria era freddina e lei, procedendo a passo svelto, si strinse ben bene il cappotto addosso e, con una smorfia di disappunto sul viso, si calcò il cappellino di lana sulla testa. Portò le mani chiuse ad imbuto alla bocca e cominciò a soffiare. Un alito caldo lambiva le dita ma, la sensazione di tepore lasciava presto il posto all'aria fredda e pungente. L’immagine di un paio di guanti di lana morbida e soffice le attraversò la mente e si rimproverò tacitamente di averne trascurato l’uso. Intanto, tra un pensiero ed un rimbrotto, si accorse di essere giunta nei pressi della sua casa. E la vide. Era là, una volta ancora. Fagotto indistinto di cenci rattoppati, coperto malamente da fogli di giornale, il profilo di un corpo delimitato da parti di scatole di cartone. Laura rovistò nella sua borsa alla ricerca di una moneta ma, una voce, un sussurrare dolce e fermo la bloccò. “ Spesso ci capita di coprire la nostra paura con la presunzione ipocritamente altruistica dell’elemosina. Lauretta, ci vuol ben altro per accogliere il bene dentro di noi per poi offrirlo agli altri. A tutti quelli che hanno muta la voce e l’anima stretta dal dolore.” No, non era il rintocco cadenzato della campana, né intorno vi era persona alcuna, quella era la voce della sua mamma e di lei erano le parole che portava dentro incise come stimmate sacrali. Ritirò la mano dalla borsa e, con rispettosa circospezione, si avvicinò alla donna. Lentamente si accovacciò e le posò la mano sulla spalla. Un viso smagrito e rugoso si offrì alla sua vista. Laura fu colpita dalla luce viva seppur profonda di uno sguardo pulito, chiaro, indenne. Non vi era difesa, in quegli occhi, e neanche offesa. “ Signora, l’aria è molto fredda questa sera, venga con me a bere una cioccolata calda, ci darà tepore.” Un timido sorriso si fece spazio tra i segni del vissuto di quel viso. La donna si strinse con una mano lo scialle bucherellato al petto e tese l’altra a Laura, che l’aiutò ad alzarsi. Insieme s’incamminarono verso il bar all’ angolo della via. Procedevano silenziose, l’una con l’incedere eretto e ameno della gioventù che s’offre alla vita e l’altra, non china, no, ma con una postura rimandante alla provvisorietà. Da lontano si scorgevano le stoffe accompagnare passi loro malgrado, come se quel corpo fosse un’illusione, la proiezione onirica di una fisicità esistente altrove. Entrarono. Nell' angusta sala vi erano pochi avventori, ciò nonostante sentirono gli sguardi di curiosità seguirle al tavolo. Laura ne scelse uno discosto dalla porta, al riparo dal freddo. "Agnesa" e le fissò il suo sguardo negli occhi mentre poggiava le mani sul ripiano, ad offrirle la sua fiducia. Laura sorrise. "Agnesa è il mio nome. Era il nome di mia nonna, vissuta nel tempo del fiume in secca. Il tempo delle pietre". "Il tempo delle pietre? Io sono Laura." E si accorse che era nella sua domanda una grande sete di conoscenza, voleva conoscere quella donna, avvicinarsi al suo mistero. Non aveva paura anzi, inspiegabilmente, avvertiva una sensazione di dolce abbandono. L'inevitabilità dell'incontro. " Le pietre sono i ricordi. Il fiume è lo scorrere della vita." Agnesa si toccò il viso, come a volerne accarezzare i segni e gli spazi ancora lisci, nudi di memoria. Il ragazzo del bar portò loro le cioccolate fumanti. Agnesa portò la tazza alle labbra e bevve un piccolo sorso. " Questo riempirà uno spazio ancora." Laura le prese una mano, piccola, bianca, una mano di bimba. " Agnesa, racconta. Parlami del fiume e delle sue pietre. Narrami di tua nonna, della siccità del corso, del tuo viaggio fino al mio portone! " Era una richiesta accorata la sua, di cui lei stessa non riusciva a spiegare l'urgenza. Non era importante spiegare. Laura sentiva ma Agnesa sapeva. “ La mia nonna aveva cinque figli, tra cui tre maschi, tutti e tre sui monti a combattere la battaglia contro gli usurpatori. Lei era sempre stata una moglie ed una mamma soltanto, per quei suoi figli e per i figli tutti dell’Italia dominata, divenne una staffetta partigiana. Si recava nei rifugi di sera, pesa di viveri ed indumenti e coperte, tutto quello che era riuscita a rimediare durante il giorno. La paura le stringeva il cuore e le dava la forza di procedere al buio, per sentieri tortuosi e solitari. Sovente mi raccontava di quei giorni e, portando la mano al petto e poi agli occhi, li denominava il tempo del fiume in secca, il tempo delle pietre.” Negli occhi di Agnesa, Laura scorse una figuretta di donna camminare svelta con l’ansia e la premura dell’amore materno. “ La gioventù, come la felicità, è un fiume in piena le cui copiose acque coprono le pietre. Il moto dei flutti trascina le pietre in altri posti, lontano dalle sponde, e le sottrae alla vista. Col trascorrere degli anni, nei periodi di siccità, il fiume smagrisce, l’acqua lascia il posto alle pietre ed alla visione di esse. Ma, le pietre ci sono sempre state, tonde, aguzze, piatte, lucide, opache, bianche e nere, non hanno mai abbandonato il letto del fiume. Le pietre sono i ricordi, la memoria che diventa immagine, sapore, odore, sensazione al tatto. Nonna Agnesa aveva capito che, pur essendo giovane, il suo fiume non era in piena. Lei stava camminando sulle pietre della secca, le pietre della sua futura memoria.” La voce di Agnesa rimandava a Laura immagini e sensazioni, il suo tono era basso e ridondante delle sfumature dell’emozione, il suo sguardo era nel posto e nel tempo di cui narrava, non era difficile a Laura sentire su di sé il dolore di quella vita. “La mia mamma era una bimba taciturna e solitaria e l’orrore di quei tempi, lo strazio di corpi mutilati riversi sulle vie, il fragore sinistro ed assordante delle bombe esplose sulle case, la miseria che ammalava bambini, donne e vecchi, la portarono a costruire un mondo a parte, tutto suo. Un mondo fatto di disegni e di parole colorate, di suoni infiniti, a coprire un pieno di crudeltà ed un vuoto impietoso. La mia mamma ha attraversato la vita con la consapevolezza della morte.” Si strinse addosso lo scialle sottile, smagliato in più punti, lo fermò al petto con le piccole mani sottili, giunte come in preghiera. Laura era ferma al suo sguardo, gli occhi di Agnesa la tenevano in attesa, come se ci fosse qualcos’altro che lei dovesse ascoltare oltre a ciò che le andava raccontando. Qualcosa che riguardava proprio lei, Laura...qualcosa che univa le loro vite in un unico senso, profondo ed inalienabile. “Hai freddo, Agnesa? Andiamo a casa, questa notte riposerai in un letto vero.” Le prese la mano e la strinse fra le sue, a passarle un pò di calore. Agnesa le sorrise in quel suo modo magico e strabiliante che somigliava ad una festa di lucciole: luci saettanti che ingoiavano tutte le rughe, i segni dolorosi e lasciavano una trasparenza liscia e cristallina. “Restiamo ancora, Laura, non ho freddo. Io non posso lasciare la strada, il mio letto di cartoni, il mio giaciglio di pietre. Devo esserci quando verrà a chiedermi della sua memoria.” Socchiuse gli occhi per un attimo, come se in quell’attimo avesse accarezzato una presenza cara, inseparabile seppur lontana. “La mia mamma trasformava- continuò- era capace di cambiare il comune senso delle cose. Quello che agli altri appariva brutto, indesiderabile, a lei rivelava sempre un aspetto inusitato, degno di attenzione. La sua anima era leggera, impalpabile, un’anima strappata all’oblio. Incorruttibile.” “E tu, Agnesa...tu...dove sei, dove sei stata?” Il campanile rintoccò un’altra ora. Fuori, il buio era sceso a coprire i contorni delle case, si udivano passi frettolosi calpestare le foglie secche venute giù a tinteggiare l’acciottolato della via. “Ricordo i boschi rossi ed oro, caldi e fiammeggianti degli autunni trascorsi qui. Le passeggiate su per i monti a respirare l’odore resinoso dell’erba ancora umida di brina mattutina. Le radici possenti degli alberi secolari tenevano fermo il fianco della montagna e dal punto più in alto, conquistato a passi veloci e col fiato corto, i miei occhi rapivano la visione del lago, fermo ed assonnato nell’abbraccio della sua circonferenza. Ero qui, Laura, ero qui ed ero altrove...sono stata in tutti i luoghi ove fosse possibile l’accoglienza.” Gli occhi di Agnesa fissarono Laura intensamente. “Le mie donne, tutte le donne, sono l’origine e l’accoglimento di ogni cosa. Di ogni umana forza, debolezza, dolore, gioia, felicità, affanno. Dalla notte dei tempi, la donna è stata la creatrice, la rivoluzionaria, la protettrice, colei che ha conservato e perpetuato la memoria affinchè i suoi figli ed i figli dei suoi figli, su su fino a noi, avessero la connotazione dell’Umanità. Una donna che va contro la propria natura e rifiuta la piena e profonda conoscenza di se stessa, rinnega la propria forza e la baratta con la debolezza della dimenticanza. Sarà soltanto e sempre un’anima smarrita, non avrà mai casa e non sarà casa per alcuno, finanche per le sue creature.” Gli occhi di Laura si empirono di lacrime, lucidi ed umidi apparivano ancora più belli. E veri. La mano di Agnesa si posò sul suo viso, in una carezza leggera e calda. “Accogliere significa permettere a chi amiamo di aiutarci, di esserci anche nei nostri momenti di vulnerabilità. Non possiamo prescindere da questo, Laura, non possiamo decidere anche per l’altro, creeremmo solo infelicità. L’originaria infelicità segna il cammino dell’intera esistenza ed il peso portato condurrà, infine, al bisogno irrinunciabile di restituire all’altro la memoria negata. Sarebbe solo tempo sprecato, sottratto alla felicità della condivisione e dell’amore.” Le lacrime rigavano il volto di Laura, ora comprendeva appieno l’inevitabilità di quell’incontro. “Devo entrare in sala operatoria fra tre giorni. Sono giovane, ce la farò.” Un sorriso bagnato le allargò il viso. “Ho parlato col mio medico due settimane fa e da allora ho chiuso i contatti con Thomas. Gli ho fatto credere che sia tutto finito, non rispondo alle sue telefonate, ai suoi messaggi...Non so cosa dovrò affrontare dopo l’intervento, forse cicli di terapie devastanti o forse nulla...ma, non voglio che lui soffra e mi veda soffrire. La mia femminilità mi ha tradita ferendo il mio seno, quello a sinistra, la parte del cuore.” Portò la mano al petto e guardò diritto Agnesa negli occhi. A guisa di sfida o, forse, a supplicare aiuto. “Thomas sta già soffrendo, Laura, di un dolore tra i peggiori: il dolore del dubbio, la sofferenza di colui che non capisce perchè gli sia negata la conoscenza. Dagli la possibilità di scegliere, dagli la possibilità di esserti accanto, di condividere...dai a te la possibilità di essere piena, sia nel bene, sia nel male. Qualsiasi strada ti si obbligherà a percorrere, non camminare sola sul letto di pietre. Accogli, Laura, come le madri tutte, da Gea ad Iside a Miriam...accogli il dolore e nel riconoscimento della tua forza, richiama l’amore per potere condividere la tua sofferenza!” Laura si alzò, si avvicinò ad Agnesa e la strinse forte. Esile, smagrito corpo, fra le sue braccia diveniva rifugio forte, caldo di originaria memoria. Strette così, uscirono in istrada. Era freddo ma l’aria era ferma, sparito il vento a sfrondare i rami degli alberi, intorno c’era silenzio, anche il campanile aveva smesso i rintocchi. Per ossequioso rispetto, chissà.