a cura di Massimo Massa

Cenni sul contenuto

Italia, 1950. "Nei bar non si parlava d'altro che del processo Rina Fort, la commessa accusata di aver ucciso la moglie e i tre figli del suo amante. Pavese si era suicidato in un albergo di Torino, per amore." In un angolo della penisola italiana, all'estremo Sud della Puglia, c'è un'altra penisola da cui molti partono in cerca di fortuna. Si tratta di una terra di frontiera "dove gli uomini e gli spiriti parlano ancora la stessa lingua", dominata da un sole maestoso e impassibile.




Una corte di spostati resta a vivere nei paesi senza tempo, poveri e superstiziosi, dove si produce il vino per gli industriali del Nord e dove si spingono, attraverso interminabili viaggi, solo i sensali. Lecce è la città dove il tempo scorre in ritardo e una vecchia stracciona, che si crede un'erede dei Savoia, rappresenta tutti quelli che "vivevano sapendo: il vento si sarebbe alzato cancellando per prima cosa le loro tracce". In questo luogo senza importanza, decide di trasferirsi una giovane donna, Teresa Manara, nata e cresciuta a Imola - dove ha visto trascolorare le atmosfere degli anni '20 e '30 attraverso le eleganti vetrine dell'antica bottega di tessuti delle zie zitelle e dove ha subìto, insieme alla sua famiglia, l'occupazione tedesca.

Teresa è la moglie di un venditore di vino sfuso convinto che "un vino, al pari di un uomo, è la sua storia", ma è soprattutto un'instancabile osservatrice, nonché la protagonista delle due storie d'amore che scorrono parallele in queste pagine: quella che la spinge a seguire un uomo fino alla fine del mondo e quella per la terra che diventerà la sua seconda casa. Grazie alla sottile lama del suo sguardo, Luisa Ruggio ci racconta un mondo visto attraverso lo specchio delle barberie, quello delle vite marginali, degli inutili, ma soprattutto quello di una natura che concede una misura di sé, un fragile miracolo spremuto con fatica dagli uomini che decidono di restare. Vigneti, vicoli, stanze, volti e storie si compongono nella voce che sussurra al lettore: "Mi sono invaiata per ottant'anni, se così si può dire, proprio come gli acini d'uva durante la maturazione. E cammina, cammina, sono finita anch'io in una storia. Questa."

Nota dell'autore

Tre anni fa, durante un pomeriggio pieno di quelli che mi sembravano proiettili invisibili da scansare, ho cominciato a scrivere un romanzo che racconta l'altrove teorico e plausibile di ogni traduzione. E mentre lo scrivevo, mi rendevo conto che non aveva più a che fare solo con un mestiere, ma con il dove della condizione umana, specie quando resa elementare e magica dall'amore.
Capitolo dopo capitolo, questo romanzo, è stato la mia personalissima Arca dell'Alleanza. Qualcosa della mia vita precedente doveva lasciarsi sommergere da un diluvio, qualcos'altro doveva essere salvato. Quando ho finito di scriverlo, mi sono sentita effettivamente come chi mette piede a terra dopo una lunga traversata in mare e durante l'editing pensavo che finalmente potevo starmene tranquilla per un po'. E invece è successo qualcosa, durante la vendemmia dello Chardonnay di due anni fa.
Mio padre stava morendo, ed io avevo bisogno di scaraventarmi parecchia vita addosso, volevo stancarmi molto, lavorare e non pensare. Come molti, sapevo di portare una parola invisibile sul mio corpo, in alto a sinistra, dove c'è una rapa chiamata cuore: fragile.
Cammina cammina, nel bel mezzo di un'intervista, mi ritrovai in una cantina, tra le campagne di Guagnano, nel Salento, inciampai in una storia che mi fece pensare ad una donna molto amata, una che si fece scrittrice per disperazione, come racconta Sandra Petrignani a proposito di Karen Blixen nel bellissimo La scrittrice abita qui.
Un ragazzo, Paolo Cantele, mi raccontò la storia di sua nonna, Teresa Manara, che nel 1950 lasciò Imola per trasferirsi nel Salento, una terra di frontiera, aspra e superstiziosa, dove all'epoca non era ancora arrivato Ernesto De Martino che più avanti avrebbe scrittoSud e Magia. Ho cominciato a sentirmi invasa da una voce, e intanto facevo le cose che dovevo fare e pensavo alla vita dell'altro romanzo. Finché una notte, davanti allo specchio mi sono sorpresa a pronunciare queste parole a voce alta: Mi chiamo Teresa Manara.
Era l'inizio di uno dei capitoli di quello che poi sarebbe diventato il romanzo "Teresa Manara".
Una divertita lealtà mi impone di mettere in guardia chi si aspettasse da questo piccolo libro una specie di biografia romanzata, genere che presuppone meno libertà di quella che solitamente mi prendo quando sto di faccia a una pagina o cento. Teresa Manara non è per me una nonna, è qualcosa di più complesso e misterioso: una donna. Il mio mestiere consiste anche col trafficare con la memoria, ma è una memoria che genera allucinazioni inattaccabili, del resto mi sono da tempo rassegnata al confine labile che unisce due territori ignoti: sogno e ricordo.

Nota dell'editore

Premi ricevuti