In Utero
Avrei voluto vederti sgusciare furbo dai cardini stabiliti del tempo ma ti sei ripiegato in te stesso come feto alla scintilla madre segreto, tra i fori di Pantalica. Sei muro di seme e vagisci fuori da questo filo di sabbia che scorre dentro questa folle clessidra. Sul tuo scheletro è piantato l’albero della terra, gola profonda del mio lungo respirare. Come posso ingoiare il sole? Come posso togliere i tuoi occhi dalle mie scarpe da viaggio? La forza delle tue parole non lascerà mai scoperte le mie spalle e ti accolgo come un infante, come primogenito, come roccia che si sdoppia mentre mi inerpico nel mondo. Sono il tuo seme fermentato il sottile aroma del tuo turibolo l’alito che hai emesso quella notte nel ventre di mia madre. E mi hai circondato come placenta invaso i polmoni, idratato la pelle protetto il cordone ombelicale che mi ha indistinto dalla tua donna eri il mio liquido amniotico il sorriso che mi merlettava l’anima. Come cieco ora vago mi accoccolo al tuo sapere per nutrirmi del colostro della terra di parole prime che mi sorprendono ogni volta di quel vento umido del divenire.
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19-03-2015 | Redazione Oceano |
Le scarpe da viaggio trasportano il viaggiatore del tempo fuori dal suo tempo, fuori da ogni oscurità e memorie per entrare di getto nell’antro liquido trasparente di una culla ricca di etnie e di storia, di cultura e articolati labirinti oggi chiusi da porte che furono usci aperti. E ascolto il vociferare del vento che schiaffeggia un presente di fredde pietre. |