Una straordinaria giornata d'ospedale

(Meloni Valentina)


Domenica(24/06/2013) ore 14.25 circa.

Seduta nell'atrio del reparto medicina guardo fuori, verso il castello, gli occhi vagano non so bene dove, forse inseguono i miei pensieri, un sentimento sordo di solitudine si insinua subdolamente in me. Penso che son troppo stanca anche per pensare, la notte qui non si dorme. Nella mia stanza, la numero dieci, ho due compagne di sventura. Marisa, ricovero per scompenso cardiaco, settantacinque anni, femore rotto, anemica, nel letto a fianco al mio, si lamenta in continuazione. Sta male poverina, ma ha un caratteraccio e pretende che tutti siano ai suoi comandi, negli accessi egoistici della sua età, forse della malattia, ma più che altro del suo carattere fiero di matrona contadina, è scortese, urla e suona il campanello senza ritegno, forse pensando che stia male solo lei.
Alla sua sinistra si trova Paoletta, ricovero per scompenso cardiaco, una vecchina di ottantadue anni linda e pinta, ironica e vezzosa come una bambina, gomito rotto, diabete, astenia . Anche lei di notte si lamenta. Tutte e due chiamano la persona che vorrebbero accanto. Marisa chiama Quarto, il marito ultraottantenne che, a dire il vero poverino, è sempre lì al suo capezzale, a parte la notte. Paoletta chiama Donatella, la figlia dolcissima e amorevole che le sta sempre vicina. Sono due vecchine molto diverse. Paoletta prima mi studia poi, da subito, mi prende in simpatia, Marisa mi usa come infermiera di supporto, è evidente che non le sono troppo simpatica. Tutte e due però la notte, nel dolore della demenza senile, o forse nell’incoscienza infantile della ritrovata fanciullezza, invocano la loro mamma. Anche io la notte precedente durante la colica, chiamavo mamma.
Sono stanca. Non dormo da diversi giorni a causa dei dolori. Marisa mi ha chiamata per tutta la notte chiedendo di essere spostata su un fianco perché l’anca le duole. Ormai mi dà ordini e mi tratta come se io fossi la sua assistente o badante personale, di notte mi tormenta finché non mi sveglia ed è un continuo sollevarla e rigirarla come una frittata senza che per altro ne abbia alcun sollievo. Il pomeriggio allora, sapendo che gli infermieri la soccorreranno, esco nell'atrio, lì posso riposare tranquilla e sparisco dalla sua invadenza.
Oggi è giornata di visite, io mi godo la solitudine delle piante assetate del pianerottolo e dato che ci sono decido pure di dare loro una innaffiatina. Queste piante non bevono da diversi giorni le sento quasi implorare. Mentre ragiono così, mi scende una lacrima, quasi quasi anche io mi sento un po’ come loro lasciata sola qui in questo piccolo ospedale di campagna. Una sola lacrima, non voglio certo crogiolarmi nel compatimento anche se un po’ mi sento sola. La caccio indietro risoluta e mi rigiro sulla sedia. Mi giro verso il pianerottolo e vedo salire dalle scale un vecchino canuto col sorriso aperto e generoso.
Mi guarda, mi saluta come se mi conoscesse e mi chiede: "auguri signora è in dolce attesa?" Io sorrido, lo saluto e rispondo (toccandomi la pancia gonfia e dolorante):"No, purtroppo, ma sarebbe stato bello ". Lui allora mi risponde: "auguri comunque" e scompare nella porta del reparto medicina.
Io intanto mi sento un po' imbarazzata per questa pancia che tradisce forse anche un mio inconscio desiderio, e mi dico che forse è il caso di rientrare dentro, ma non ne ho voglia, perché la stanza è piena di parenti premurosi e oggi si soffoca dal caldo e dalle esalazioni da pannoloni pieni e disinfettante.
Mentalmente parlo alle piantine meste e assetate e le rincuoro promettendo loro dell'acqua appena possibile. Nel mezzo della mia conversazione si apre la porta verde e vedo uscire il vecchino di prima che, sempre col sorriso, mi si avvicina e, prima titubante, poi deciso e risoluto mi fa :"beh signora auguri comunque!" Poi si ferma di fronte a me e dice tra sé e sé, quasi cercando di convincersi a mettere in atto il suggerimento del cuore: "Ma si!" . Si avvicina, e io faccio per dargli la mano che, capisco vuole salutarmi, ma lui con uno slancio che mi spiazza mi abbraccia con dolcezza e mi stampa un bacio sulla guancia con una tenerezza infinita.
Io resto ammutolita ma lo abbraccio a mia volta e mi prendo la coccola inaspettata con vero piacere, poi, mentre il vecchino sconosciuto scende le scale e se ne va con la stessa naturalezza con cui è salito, a me scende la lacrima che mi ero negata, anzi più d'una e la tristezza lascia il posto a un pugno stretto di tenerezza che mi allarga il cuore e il sorriso.
Rido e piango, chi mi vedesse ora penserebbe che son matta. Lo sono, lo sono, la mia è una pazzia segreta acquisita in anni di solitudine e quindi rido e piango e poi mi ricompongo giusto per riservatezza.
Mi asciugo e penso tra me e me:"Anche io oggi ho ricevuto la mia parte di coccole e adesso che mi sento immensamente ricca voglio condividere la mia ricchezza con qualcuno.”
Allora mi tiro su e vado a trovare la signora della stanza otto, è immobile e ha la badante fissa che le fa tutto. Deve aver avuto una sua storia anche se adesso non la può narrare ed è ferma lì come una bambola. Non conosco il suo nome e non so nulla di lei ... Dentro di me mi chiedo se da qualcuno riceva mai una coccola. È una settimana che sono qui e non ho mai visto un parente nella sua stanza. Entro, mi siedo e l'accarezzo. La badante, che non sa una parola di italiano, mi guarda, neppure troppo stupita poi, senza parlare o dire nulla mi sorride con dolcezza. Io le sorrido a mia volta e torno alla mia stanza.
Marisa è da sola, l’infermiera ha lasciato la stanza da appena cinque minuti, e lei “abbandonata a se stessa” come mi vede fa per lamentarsi “mamma oh mamma ...tirami su !” Io sorrido pensando al tiramisù (il dolce al caffè ) e penso che ora ne avrei bisogno ma di sicuro con questa pancreatite mi ucciderebbe!
Rido da sola affogata nel pensiero del tiramisù e Marisa si offende pensando che la prenda in giro, Paoletta invece quasi leggesse i miei pensieri, mi rende il sorriso e mi fa l'occhietto.
Ho visto bene? Mi ha fatto l'occhietto sì ho visto bene e adesso senza farsi scoprire da Marisa me ne fa un altro!
Rido di gusto e prendo la bottiglia d’acqua e con le lacrime agli occhi per il gran ridere dico a Marisa: ”Vado ad innaffiare le piante, le piante del pianerottolo che hanno tanta sete”. Lei per tutta risposta mi guarda con disprezzo e mi dice: “ecco lei va a innaffiare le piante e io intanto me moro!”.
Le piante sorridono mentre Marisa forse sta morendo dentro perché lo so che in realtà le sue richieste sono solo un modo sbagliato per cercare di comunicare la sofferenza, quella che ha dentro e che il suo corpo tradisce con la malattia.
Rientro in stanza. Marisa non è morta né dentro né fuori. Fa la finta offesa ma di nascosto, con la coda dell’occhio, segue ogni mio passo e da quegli sguardi furtivi e silenziosi sento parole che mai pronuncerà.
Sembra essersi calmata adesso che son qua. Il tempo passa tra visite e noia. Stanno per passare con la cena. Quarto è arrivato e prepara il tavolo. Io non posso mangiare nulla e per non soffrire troppo decido di tornare dalle mie piante sul pianerottolo, adesso meno assolato. Mentre vado passo davanti alla stanza otto e mi affaccio, la badante straniera se ne sta andando e mi fa un cenno, le dà il cambio una signora italiana, forse anche lei badante che mi saluta. Senza aver chiesto nulla, la signora viene fuori e inizia a raccontare, una storia, una storia che altrimenti resterebbe muta dietro quel corpo di bambola sul letto della stanza otto.
La signora G. ha avuto un’infanzia difficile di quelle che solo le donne di campagna conoscono, una famiglia povera e forse ignorante in cui i sentimenti sono banditi. Come spesso accade in questi luoghi la bambina infelice si sposa presto con un uomo che non ha neppure scelto e ha tre figli. Uno muore da piccino, anche il marito alcolizzato che la picchia muore, forse troppo tardi, per liberarla da una vita infelice. I figli se ne vanno, la lasciano sola. Uno muore di una grave malattia, l’altro sparisce e non si fa mai vedere, non si sa nulla, neppure dove viva non vuole essere “disturbato” da una madre che non ha scelto. La signora G. dopo una vita tragica di lavoro e privazioni si ammala gravemente. È sola ma in fondo lo è sempre stata, sola. Nessuno sa, a parte la sua vicina, che si sta ammalando gravemente, non ha neppure il tempo di metter fine da sola alle sue sofferenze, che perde la capacità di gestire la sua vita totalmente. Il figlio non si sa che fine ha fatto, forse avrà saputo che la mamma sta male ma è assente dalla vita. E poi anche lui segue i fratelli e il padre in una morte tragica. La notizia si spande per il paese, ma la signora G. non può saperlo paralizzata dentro al suo dolore. È sola e la sua memoria l’ha affidata alla vicina che adesso se ne prende cura e mentre racconta piange e mentre piange si sente la sofferenza di un corpo di bambola che parla da un’altra voce.
L’abbraccio e la ringrazio, fortuna che al mondo ci sono gli angeli "le sussurro- altrimenti la vita sarebbe solo un pozzo di profonda sofferenza.
Mi dirigo al pianerottolo e guardo fuori. I pensieri adesso si confondono. Vedo dalle scale salire la famiglia di Marisa, in grande apprensione come sempre. Li saluto. “Sta mangiando” li rassicuro. Vado giù al distributore e prendo un succo di frutta fresco. Lo porto alla signora della stanza otto che nel frattempo si è appisolata sulla sedia, non la sveglio, lascio la bottiglia sul tavolo ed esco.
Torno nella mia stanza affollatissima, non so neppure dove mettermi seduta, per arrivare al letto dovrei poter volare… Marisa ha tutti intorno a farle coccole ed è scura in volto e arrabbiata, scontenta eternamente. Fa i capricci come una bambina viziata, non vuol mangiare questo e quello, si arrabbia con Quarto che ha messo poco sale nella minestra. Il marito, i figli, la nuora la riempiono di attenzioni, sinceramente preoccupati… Non posso fare a meno di confrontare questa stanza con la stanza otto… Paolina mi guarda, imboccata dal genero con amore, io le sorrido, ma dentro, a dire il vero, mi sento molto triste per la signora G.
Torno alla stanza otto e mi siedo vicino alla signora G., lei non si muove, l’amica- badante dorme.
Le prendo la mano e inizio a raccontarle una storia, la storia di una bambina di nome G. nata in campagna, che sognava di diventare ballerina, una bambina che è diventata adulta, con un marito premuroso che in ospedale la imboccava e sorrideva, una donna di campagna allegra e amorevole con figli e nuore, anch’essi amorevoli, e nipoti piccoli e scanzonati, tutti intorno a lei, in quella stanza d’ospedale tutti intorno a lei per farla tornare a vivere…