Tempo a confronto

(Giovagnetti Elzide)


Erano fiori di sambuco.
Fiori di tenue colore giallo attaccati come festoni, dal profumo così intenso da non riuscire a respirare.
Li strappavo agli alberi cresciuti dietro il pollaio e ci decoravo le torte che impastavo nei barattoli vuoti di tonno e carne Simmenthal.
Scorrono rapide figure.
Volti di ragazzine, io, Emi, Cris, Simo, invadono la mente.
Sulla strada come cani randagi.
Quando tornano prepotenti i ricordi non abito mai la casa, non vedo se c'è colore sulle pareti, neppure la disposizione degli oggetti. Vedo una ragazzina in bicicletta, a tirare calci al pallone, a rotolare sull'erba. Mi vedo all'aperto, a vivere la terra.
Se penso al tempo vissuto fuori, oggi mi manca l'aria.
La mamma ci chiudeva in camera nel primo pomeriggio, per lei il riposo era sacro, e noi ignare del pericolo saltavamo dal terrazzo per ritornare all'aperto. Credo facesse finta di dormire per lasciarci scappare.
Oggi non vado mai fuori a passeggiare, scorrono le ore e scende sera senza che nessun odore possa catturare la mia attenzione.
Simo diceva: - Gara?
Allora, con biciclette, scrostate nella vernice e abbozzate, pedalavamo su strade quasi deserte vissute da noi palmo, palmo. Ogni corsa una nuova avventura. Il dolore non toccava mai la nostra mente, anche se spesso le ginocchia sanguinavano per le cadute e la pelle bruciava di troppo sole.
Adesso che invece il dolore pulsa forte nelle tempie, cerco di mentire a me stessa e do la colpa alla pressione arteriosa. Anche il sangue male ossigenato, decide di fare capricci, e per sostituire l'aria che respiravo a pieni polmoni il dottore prescrive la pastiglia tutte le mattine finché morte non ci separi.
Nessuno che dica:- Gara?
La mia Graziella come una Ferrari e non esistevano marce, i freni consumati, ma non importava, non era necessario frenare, non per me. Come un campione volavo verso l'arrivo sempre a mani lasciate.
Che botta quel giorno! Avevo deciso che era giunto il momento di far sapere a mia sorella quanto fossi brava. Inforcata la strada che da casa scendeva verso la pianura, circa un 700 metri in discesa, staccai le mani dal manubrio. Simo era dietro di noi con la nuova bici e io volavo, con l'aria che mi tagliava il viso. Tutti i giorni lo stesso giro. Stavolta però non avevo calcolato che alla curva grande mia sorella, inclinandosi dal lato opposto al mio, mi avrebbe fatta cadere. Impazzita, senza più nessun controllo, la bici iniziò a sbandare. Inevitabile la perdita di equilibrio, scontata la rovinosa caduta e fuori da ogni previsione Simo che con le ruote passava sopra il piede di mia sorella e riusciva, chissà per quale misterioso miracolo, a non cadere. Dieci metri a strisciare sull'asfalto che mangiava la mia pelle. Sanguinavo, le ferite bruciavano come ustioni, ma la paura della punizione di mia madre anestetizzava il dolore.
Sono evidenti ancora oggi le cicatrici, ogni volta che tentano di minimizzare la caduta mostro le mani .
Sono una donna responsabile, quella che non fa pazzie, che prima di agire fa un programma, difficile credere che da ragazzina vivessi in maniera spericolata.
L'asfalto sulla strada arrivò che ero ancora alle elementari. I giocattoli giungevano, forse, a Natale e allora tutto poteva trasformarsi in gioco. Mucchi di terra ai lati di una strada in costruzione diventavano scivoli, e a casa la mamma finiva di far diventare rosso il sedere, si stancava di cucire sempre sugli stessi buchi. Non ascoltavamo, erano cantilena i rimproveri e i tentativi di farci sentire in colpa per problemi che purtroppo erano reali. Tutti i giorni a scivolare, ero felice del nuovo gioco, valeva qualche pianto in più.
A dodici anni ho cambiato terra per rotolare, mi sono iscritta nella squadra di calcio femminile del paese. Mio padre, uno tra i pochi sposati che negli anni settanta erano interessati a tutti gli sport, mi aveva contagiata . Tutte le domeniche si sgolava alla partita, e dove c'era una corsa delle motocross c'eravamo anche noi a sporcarci di fango fino sopra ai capelli.
Oggi è domenica, sono vicina al camino, e anche se la noia mi sta spegnendo non mi muovo. Di sicuro i giocatori della squadra del mio paese da qualche parte corrono per vincere la partita. Anche mio padre non si muove, ma lui è immobile, fermo nel letto da infinito tempo, curato da mamma come un bambino. Forse nella sua mente scorrono gli stessi ricordi, intravedo una smorfia di dolore quando mi avvicino al letto. E' fermo come un autobus al capolinea. Nessuno sale, nessuno scende. Forse è lui che vorrebbe scendere per tornare a camminare. Mi chiedo se quel Signore aprirà la porta.
Quando ero piccola mi guidava stringendomi forte la mano quasi a farmi male, e io non avevo paura. Ora che non so dove guardano i suoi occhi mi perdo. Quando alzo la sua testa per togliere una maglia bagnata dal sudore, la tenerezza e il disagio di sentirlo figlio mi stringono alla gola.
Eravamo al fiume. Mentre pescava con le mani mi gridava di non avere paura. Allora sentivo le sue parole alleggerirmi le braccia e riuscivo a muoverle come se già sapessi nuotare.
La sua forza era farmi sentire sempre protetta. Cado ora che sono sola ad andare. Nessuno mi ha insegnato a fare da madre a mio padre e vedere la sua donna accudirlo come un figlio è come scivolare in un labirinto senza fine da dove neanche una ragione può farti uscire. Quando in montagna stavo seduta sulla seggiovia e vedevo il mondo dall'alto, avevo circa otto anni, pensavo che mio padre fosse un re buono che per farci scoprire quanto fosse bello il mondo avesse progettato quella ruota solo per noi. Ora che sono cresciuta ed ho compreso quanto avesse lavorato per costruirla sento forte un dolore al cuore.
Dovrei muovermi. Il fuoco si sta spegnendo e sento freddo.
Scolorano immagini di fiori selvatici azzurri, che spuntavano tra le rocce insieme ad altri di colore giallo dall'odore intenso di montagna e scompare la camicia a scacchi rossi e neri di mio padre e il berretto bianco e la cinta dei pantaloni che stringeva più del necessario. Era un uomo muscoloso, ci teneva a farlo vedere, amava anche la boxe e spesso si metteva a tirare pugni con me saltellando sul posto, non ci andava leggero, mi insegnava anche a difendermi. Spesso sul tavolo faceva a braccio di ferro con noi figli. Da grande piegavo il braccio dei ragazzi, e orgogliosa dicevo che mi allenava mio padre.
Ora è silenzioso da troppo tempo, ma allora incantava con le sue storie e canzoni popolari. Non mancava l'aiuto per i compiti difficili. Per molto tempo, dopo l'operazione alla testa, mi sono comportata come lui, come un rosario ripetevo ciò che di importante mi aveva insegnato. Volevo che si svegliasse, che tornasse nel mondo dove c'ero io. Ma lui è ancora li, nel silenzio e se lo accarezzo non smette di muovere la testa, come a non volere essere toccato. Credo come me non sopporta questo scambio di ruoli. Quando ho paura e sono disorientata abbraccio i miei figli, ma a loro faccio credere che sia per ripararli dal dolore.
Demoliscono così le loro paure. E' fondamentale avere un punto di appoggio per non barcollare troppo. Mi sembra di essere quella strana figura che torna a casa dopo una colossale sbronza, e continuamente cade e smarrita sembra non riconoscere la vecchia strada di sempre. I miei piedi camminano su un terreno dove le buche sono di fango, restano intrappolati.
Prima che si spenga anche l'ultimo pezzo vado fuori a prendere altra legna, senza pensare, già era nella mia testa non sentire freddo.
E' così che funziona. E' come dare acqua al fiore che ha sete, concime alla terra che ha fame, spazio ai ricordi che debbono restare, tempo ai sogni che aiutano a vivere, affetto ai figli che hanno bisogno di calore, spazio all'amore per non farlo morire, parole a chi si sente solo, silenzio a chi è nel caos. Tutto è in funzione di tutto. Continuamente ci completiamo e rinnoviamo.
Accade a volte di fermarsi, di guardare fuori dove siamo già stati, prima di andare dove ci fa paura, nel domani. Non sento più freddo ora. Gli occhi sgranati per la meraviglia di una bambina in salita sulla seggiovia mi scaldano il cuore. Posso alzarmi, smettere di ricordare, scendere le scale, aprire il portone e camminare prima che si faccia sera e magari trovare qualcuno al paese che mi sappia dire se la mia squadra ha fatto goal.
Volano ragazzine con i capelli al vento sulle biciclette quasi da buttare e Simo grida: - Gara?
Si, Gara!
E torno a volare.