Percorsi bizzarri a Cesena

Fin dai tempi delle Superiori ideavo giri turistici alla scoperta della mia città, dando l’occasione 
a chi mi veniva appresso di ammirare Cesena dall’alto, con le numerose prospettive che si apprezzano 
dai tre colli che coronano il dedalo di stradine del centro storico. Avvisavo i visitatori capitati 
sotto le mie grinfie che bisognava sgobbare, incamminandosi per scalinate e scalette, rampe ciottolate,
tornanti indiavolati, ripide scoscese. Mi seguivano stuzzicati, salvo poi rinnegare l’infausta scelta 
a metà percorso, quando constatavano che il tour prevedeva di inerpicarsi sull’ultimo colle, il più 
maestoso, al quale non potevano rinunciare, attratti dalle narrazioni su cosa avrebbero contemplato 
da lassù. Il periodo ideale per attraversare i tre spartiacque cittadini era la primavera, quando i 
colori lievi di peschi, albicocchi e ciliegi in fiore ammantano le colline. Un fragore di tinte calde, 
con gradazioni tendenti al cremisi, al madreperla. Una poesia per gli occhi, un incanto per l’anima! 

Si partiva da Piazza Popolo, il fulcro della vita civile, dominata da Palazzo Albornoz, il municipio, 
edificio ingentilito dal loggiato che ospita le targhe ai martiri cesenati e alle glorie del 
Risorgimento. Nel piano rialzato si estendeva il folcloristico Mercato Coperto; lo percorrevo per 
recarmi a scuola. Allora, le aule di Segretaria d’Azienda erano dislocate in più istituti: dentro 
al Comune, in Via Aldini, nei pressi dello Stadio. Per noi studenti era un continuo andirivieni, 
sempre col rischio di confondere la destinazione e ritrovarci nella scuola sbagliata il giorno 
dell’interrogazione. I nostri diari traboccavano di cenni su dove andare, in quale succursale: 
eravamo precari di un posto, sbattuti in giro per la città dalle disposizioni di un dirigente 
scolastico perverso. Avevo il sospetto fosse un istruttore di ginnastica che esultava immaginandoci 
alle prese con frenetici spostamenti per arrivare in orario. Età leggiadra! Decantavo le bellezze 
della piazza: l’elegante loggetta veneziana e il torrione del Nuti, appendice inferiore della Rocca
Malatestiana; il porticato che accoglie il Palazzo del Leon D’oro, sede fino agli anni Ottanta di un 
hotel frequentato dagli attori in scena al Teatro Bonci; la misteriosa chiesa di Sant’Anna, che 
riuscii a visitare soltanto 15 anni dopo, quando la restaurarono. E soprattutto, la regina della 
piazza, la Fontana Masini. Quell’ammasso perfetto di pietra d’Istria, addolcito da stemmi araldici 
ed elementi allegorici rimandanti a figure della vita marina: i tritoni, la tromba d’acqua che trova 
il suo acme nella scultura dell’ananas. Una visita contegnosa a Cesena poteva culminare soltanto qui, 
nel centro totale dello splendore. Invece, da qua ci avviavamo. Dal classico, per inoltrarci in un 
percorso bizzarro. Prima di partire, leggevo, dalla targa murale, i versi di Dante dedicati a Cesena: 

“E quella cu' il Savio bagna 'l fianco,
così com'ella sie' tra 'l piano e 'l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.”

Superando l’arco di fronte alla fontana, compariva lo scalone coperto, quasi 80 gradini piccoli, 
aggraziati. Raggiungevamo la Piazzetta dei Cesenati del 1377, intitolata alla strage del Sacco dei 
Brettoni, in cui venne trucidata una parte consistente della popolazione. Qui spuntava la sommità 
del torrione del Nuti, sito del Museo delle Scienze Naturali. Il primo colle, lo Sterlino, ci 
aspettava. Potevamo optare fra due tragitti per raggiungere la cima: l’ardua pendice di Via Malatesta 
Novello, intraprendendo l’ascesa sui ciottoli; oppure, avventurandoci dentro al Parco della Rimembranza,
un labirinto di sentieri alberati e scale tortuose che conducono alle mura del castello. 

Ciascuna alternativa elargiva diverse vedute della città, da imprimere nella memoria. Si usava con 
parsimonia la macchina fotografica; la telefonia portatile era agli albori, i cellulari, erano 
parallelepipedi di dimensioni madornali. Con le spalle rivolte al maniero, raccontavo dei miei 
trascorsi nello spazio dello Sferisterio: le partite di pallavolo, le chiacchiere con amiche facendo 
jogging, le arrampicate in occasione di una nevicata. Entravamo nel cortile della Rocca. Mi dirigevo 
al più curioso elemento di quel luogo, la gabbia del merlo. Marco. Lo ricordo con affetto, perché 
rievoca la mia infanzia, quando con la maestra andavamo lassù in gita e noi bambini gli chiedevamo 
il nome; lui rispondeva, scatenando la nostra ilarità. Dai camminamenti la città si rivelava a 360 
gradi; si alternavano i poggi limitrofi, la pianura digradante verso il mare, i monti con le alture 
maggiori: Carpegna, San Marino, l’Appennino Romagnolo. Riprendevamo il cammino e, raggiunta la 
biforcazione, giravamo a destra per varcare la Porta Montanara, l’antico passaggio che schiudeva 
alle strade collinari. Mi soffermavo sulla targa narrante l’ode di Renato Serra, illustre poeta 
cesenate del Primo Novecento: 

“Un passo dietro l’altro 
su per la rampata 
di ciottoli vecchi e lisci 
con un muro alla fine 
e una porta aperta sul cielo 
e di là il mondo”.

Stavamo scavalcando un confine, tra il reale e il fantastico, tra il concreto e il sibillino, balzando 
al di là del sicuro margine delle mura cittadine. Subito oltre la breccia, raggiungevamo gli archi 
“Occhi della Civetta”, ruderi della rocca antecedente. In basso, scrutavamo il fiume Savio fluire sotto
al Ponte Vecchio, e di fronte, stagliarsi il colle Garampo, territorio del Convento dei Frati 
Cappuccini. La prossima meta. Scendevamo, incrociando la Via Diavolessa, avanzavamo risalendo la 
costa, fino a un ulteriore bivio. Da questo punto solo un centinaio di metri ci separava dalla chiesa.
Un tragitto irto di sforzo, costellato da 14 fermate, la via Crucis che percorrevo da ragazzina il 
Venerdì Santo col catechismo, guidata dall’immenso Don Gino. Quasi in cima si espandeva il parcheggio 
terrazzato e lì, salivo sul gradone e mi sporgevo dalla ringhiera per meravigliarmi nel riscoprire 
la mia città. Solo dall’alto e con le gambe gonfie di fatica potevo veramente gioire di quello che si 
stendeva ai miei piedi. Nel convento mostravo l’opera più bella, la pala di Guercino, raffigurante 
S. Francesco che riceve le stigmate. Si ripartiva, per affrontare il terzo colle, lo Spaziano, sul 
quale troneggiava la millenaria Abbazia della Madonna del Monte. Si doveva ridiscendere a valle e 
poi tornare su, più su di quanto non avevamo già fatto. Per risparmiare tempo, avevo scovato una 
scorciatoia: un declivio che fiancheggiava il Convento delle Clarisse, giungendo davanti al Cimitero. 

Occorreva fare attenzione; a volte, il fango rendeva il terreno sconnesso. Giunti in Via Ponte 
Abbadesse, voltavamo a destra. Lungo il percorso incontravamo persone intente a fare il Giro dei 
Gessi, camminata che si dispiega nelle strade dietro alla Basilica, per i cesenati rinominata con 
affetto “il Monte”. Proseguivamo per Via Genocchi e in Via Celincordia salivamo, per poi smarrirci 
nelle signorili vie della zona del Monte. Qui individuavo la viuzza che immetteva in un altro tratto 
impervio di Cesena: le Scalette. La parte iniziale era gradevole, avvolta in fitta vegetazione; 
poi una gradinata in forte pendenza, culminante con una celletta votiva, dove si beneficiava di 
un’inconsueta angolazione, capace di ridestare il respiro ormai affannoso. Ultimi passi impegnativi, 
una salita erbosa ed eccoci al traguardo! Nel piazzale prospiciente la Basilica. Affacciandosi 
sul pendio, si scorgevano le colture di ulivi e viti dei monaci benedettini. Di fronte c’era 
l’ingresso della chiesa, a fianco un portone che introduceva ai chiostri e alla bottega. A lato, 
un albereto dove mio padre mi portava a giocare; laddove persi il mio berretto e lui, per recuperarlo,
si sporse dal parapetto acuminato rischiando di precipitare. Ricordi della mia infanzia, così immersa
nei luoghi di Cesena. Tanto da avere ancora vivido nella mente un sogno fatto da bimba, quando mi 
ritrovai chiusa in uno stanzino all’interno del monastero. La sensazione di claustrofobia era 
talmente opprimente da sembrare concreta. Ogni volta che entro in basilica rivivo quella visione 
onirica. Il giro riservato al turista era all’apice. Dovevamo rientrare in centro. Discendevamo 
dalla Via del Monte, tenendo sulla sinistra il campanile del Duomo, quasi a impugnarlo. Poi giù, 
fino alla Via Padre Vicinio da Sarsina. Entravamo nell’ala destra del Giardino Pubblico, dove c’era, 
oltre allo scivolo che mi allietava da piccina, l’accesso alla cinta muraria di Cesena: un percorso 
intrigante dalla forma di scorpione. Lasciavamo il parco e procedevamo su Corso Garibaldi, passando 
un altro emblema, il Teatro Bonci, capitanato dalle sculture simboleggianti i fiumi Savio e Rubicone. 

Si continuava per Corso Mazzini, lasciando a destra il quartiere risanato della Valdoca. Di fronte 
alla Cattedrale, in Piazza Pia, mi congedavo per tornare a casa, in Via Roverella. Erano giorni 
felici quelli delle passeggiate per i tre monti e, malgrado la città sia tanto cambiata, non 
disdegnerei di rintracciare un seguace pronto a saggiare questa allettante esperienza su e giù 
per Cesena.
data autore commento (si può commentare solo se si è loggati)
14-05-2015 Redazione Oceano Tre monti e due prospettive: intimistica e corale, un racconto che si allarga dai ricordi privati alla storia della città, un itinerario da brevettare e donare all’ufficio del turismo. Complimenti all’autrice.