L'oceano e la porta
Lei, l’unica cosa che aveva capito in tutto quel caos, in tutti quei maledetti equivoci ingigantitisi fino a non poter respirare più, in quella rabbia cieca che era subentrata, in quel dolore troppo grande e senza senso, era che lo amava. Sì, lo amava. Così per assurdo quell’uomo che le aveva fatto tanta paura come un’enorme montagna scura si era trasformato nel suo cuore in un’isola, che la conteneva tutta, e non sapeva come. Lo aveva capito sempre più durante i suoi passi confusi e stentati, e poi del tutto all’improvviso, in quel suo studio/laboratorio arancio chiaro con le tendine verde bosco e tutti i suoi libri e le sue penne, e poi in quel divanetto che pareva più grande di lei. Lo aveva afferrato con una lucidità dell’anima senza paletti e senza fronzoli, finalmente, ascoltandosi dentro mentre lui la feriva, per l’ennesima volta, e poi la rinnegava. Sì, lo amava. Così com’era. E non come aveva creduto dovesse essere un giorno il suo vero compagno. Ma, come sempre nella sua vita, anche stavolta era troppo tardi. Perché forse in quel caso lei aveva fatto peggio di un uomo, aveva scambiato l’amore per passione. Ne aveva provata così tanta, forte, viscerale, che le era andata in testa prima come una gioia immensa e poi come un veleno forse. Un veleno che aveva offuscato di paura ogni movimento, ogni pensiero. Perché lei aveva già sofferto prima di lui, troppo, e a un certo punto aveva temuto che quell’uomo ancora fragile e così pieno d’amiche la fregasse, convincendola a credere a una storiella squallida ammantata di passione. Quando lui una volta le aveva detto che non riusciva a riconoscere l’amore di un uomo lei era rimasta senza fiato, per la gioia forse, ma aveva ugualmente tremato. Forse aveva cominciato a contare gli indizi, senza rendersene conto. Perché dopo i vandali di prima lei era rimasta come un giardino devastato. Cercava gli indizi dell’amore. Come Pollicino con le briciole, per arrivare a lui senza più paura. E i pensieri s’erano conditi di mille coincidenze, arrivate sempre, grandi e sempre troppo puntuali per riuscire ad ignorarle, e poi avevano finito con lo schiacciarla... spesse più d’una coltre di fumo nero che ti cambia all’improvviso tutto lo scenario, e perdi di vista l’orizzonte, fino a non sapere più dove sei, e soprattutto con chi. Aveva cercato di lottare, di far chiaro affinché tornasse la luce, ma nessuno aveva voluto ascoltarla, nessuno. Anzi, la coltre nera era diventata un oceano che la spazzava via, e che si era nutrito a ogni istante di se stesso per ingrandirsi. E le onde di quest’oceano la rendevano ogni volta più solitaria d’un deserto. Ogni volta che lei provava a parlare. E la lasciavano ancora più assetata e stremata. L’avevano dipinta come un fiore nero. E gli avvoltoi dalle compiacenti labbra rosse, le stavano di sopra. E poi il freddo non se n’era andato più da lei. Quello che sta nel profondo più delle ossa. Quello che ti spoglia di tutto, persino di te stessa. E tremava ancora. Perché nulla dà più freddo di una porta chiusa. E di quel silenzio che ne segue più accecante del sole del deserto, più tagliente delle rocce frastagliate di certi mari. Ti spacca il cuore e la bocca quel freddo là, ti spacca i giorni e le notti. Non sono le porte aperte a far entrare il freddo, no. Sono quelle chiuse.
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