L'anima dei morti

(Quaranta Enzo)


E’ giovedì sera dell’ultimo giorno di ottobre. Fuori ci sono ancora venticinque gradi, fa un caldo strano in questo autunno che non arriva in pieno. “Sono cambiate le stagioni”, penso. Ma quel pensiero un po’ banale, utilizzato spesso impropriamente per lamentare il cambio delle abitudini, della società, stasera sembra proprio azzeccato.
Esco di casa per fare una passeggiata e sento che l’umidità sta prendendo il posto del caldo giornaliero, rendendo l’aria pesante, a tratti irrespirabile. Bastano pochi minuti dall’inizio della passeggiata che già mi sento sudato e appiccicaticcio, e mi chiedo per quale anomala ragione questa sera ho deciso di fare una passeggiata. Fortunatamente arrivo ad una pinetina malcurata, non distante da casa, e una panchina che resiste agli atti vandalici che subisce sistematicamente, dona conforto alle mie membra stanche. Se guardo il paesaggio che mi circonda noto che poco è cambiato negli anni. Qualche colata di cemento in più qua e là, senza alcuna logica e senza alcuna regola; sembrano voler essere delle opere a perenne memoria dell’incapacità e della corruzione che ha caratterizzato le amministrazioni comunali che si sono susseguite. Il traffico delle auto irregolare e incontrollato fa da cornice a questo scempio urbano.
Vengono verso di me un gruppetto di bambini, con maschere di mostri, di teschi, di zombi, che urlando e facendo baccano mi gridano: “Dolcetto o scherzetto?”. Impaurito e ansimante, cerco nelle tasche e non avendo caramelle estraggo delle monete che i giovani teppisti afferrano al volo, dicendomi che è stata la mia serata fortunata, altrimenti sarei stato colpito con uova marce e farina. Pochi secondi e sono già lontani ad effettuare ulteriori estorsioni a commercianti, cittadini ignari, povere vecchiette. Saranno state le maschere mostruose, saranno state le urla, saranno state le proporzioni del branco, ma non posso negare che io, uomo adulto poco più che cinquantenne, ho avuto paura di questi fanciulli, vedendomi già impanato con farina e uova e forse qualche manganellata.
Non posso che non pensare nuovamente “sono cambiate le stagioni”, e non solo perché l’ultimo di ottobre fa molto caldo, non solo perché il paesaggio della mia cittadina nativa è notevolmente peggiorato, ma perché la mia mente ripensa a come si festeggiava l’arrivo di tutti i santi in passato.
Sia chiaro, non sono un cattolico professante convinto, non mi interessa inserirmi nella inutile diatriba tra la festa sacra e profana, anzi, molto spesso ho propeso per le feste folcloristiche e profane, che sicuramente nascono da eventi storici, circostanze reali e credenze popolari diffuse (e il popolo ha sempre ragione!).
Ma questa festa americana importata non mi piace proprio, non ne capisco lo spirito, non diverso dal carnevale che viene festeggiato tra qualche mese, sicuramente con maschere più belle e divertenti, fatto in alcuni casi di esagerazioni fuori luogo. Probabilmente nasce con l’intendo di sdrammatizzare la morte, di esorcizzarla, di distrarre la mente rispetto a quanto la morte faccia paura. In ogni caso non credo sia un buon esempio per i nostri piccoli amati giovani banditi che utilizzano ogni nuova circostanza per tirare fuori il peggio di loro.
E allora, mentre rilasso il mio corpo su questa panchina sofferente, la mia mente torna in dietro nel tempo, dieci, venti, trenta, quarant’anni fa.
Eccomi fanciullo, allegro e spensierato, dentro casa dei miei nonni paterni. La casa ha solo tre stanze grandi, volte alte, fresca d’estate, fredda d’inverno. Mi accoglie all’ingresso mia nonna Loreta, il viso scavato dalle rughe, i capelli argentati raccolti dietro la testa e un sorriso splendido e contagioso, con il quale mi si avvicina e tenendomi il viso con le mani grandi e callose, mi dona diversi baci sulle guance pronunciate.
Dopo saluto nonno Antonio, un contadino che ha dedicato la sua vita alla famiglia e alla terra, gli unici suoi amori. Si, la terra, perché i contadini, quelli veri hanno un rapporto d’amore con la terra che coltivano. La terra li ha visti nascere, li ha visti crescere, fiorire e anche sfiorire. E mio nonno, stanco di lottare contro la vita, continua ad avere pensieri belli per la terra che ha sempre coltivato e che vuole continuare a vedere ogni giorno, fino alla fine.
In questa minuscola casa ci raduniamo con cugini e zii, e la nonna inizia le celebrazioni donando a ognuno di noi fanciulli, i regali per la festa: gli scaldatelli, ossia i taralli tipici pugliesi, i pupurt, il tipico dolce povero fatto con mosto cotto e mandorle, il melocotogno cotto, il melograno. “Quist so p l’anm di mort” aggiungeva la nonna nel porgerci questi preziosi doni.
Mi sono sempre chiesto il significato dei doni per l’anima dei morti. Preludio delle più recenti calze fatte di caramelle industriali, gomme da masticare di dubbia provenienza e dolciumi di basso pregio, questi doni erano in ricordo dell’anima dei morti, ossia i morti, i nostri morti, erano buoni con i bambini, non facevano paura e cercavano ogni anno, attraverso questi regali, di mantenere vivo il ricordo di loro.
Infatti, terminato il rituale della distribuzione dei doni, tutti raccolti attorno al braciere, ascoltavamo le storie sui nostri defunti, i genitori dei nonni, gli zii dei nonni, i nonni dei nonni; persone mai conosciute da noi, ma che diventavano vive attraverso il ricordo e il racconto che durava per ore, ricco di particolari e di aneddoti.
E così, attraverso questi racconti, ho conosciuto nonno Nicola, morto dieci anni prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, uomo tutto d’un pezzo, grande lavoratore, convinto che chi non avesse i baffi non poteva essere considerato uomo. Ho conosciuto nonna Santina, morta negli anni venti, alla cui scomparsa si è accompagnata quella della zia Michela, sua figlia, sfiorita in tenera età per un neo degenerato. Ho conosciuto nonna Felicetta, scomparsa a novant’anni dopo aver seppellito due mariti che, per volere del destino, avevano lo stesso cognome.
Potrei continuare per ore e ancora risuonano nella mia testa i racconti che in maniera costante e identica si ripetevano di anno in anno, la sera prima della celebrazione dei santi e dei morti.
L’indomani, accompagnati sempre dai nonni, avremmo portato conforto e saluto ai defunti protagonisti dei racconti, potendo finalmente associare ad ogni storia anche un volto, magari in bianco e nero, magari dai contorni irregolari, a comprova di un’epoca oramai trapassata, ma costantemente vivi nella memoria dei narratori che avevano il compito morale e il piacere di tramandare questi ricordi.
Perché il tema vero è proprio questo: quello che vogliono i defunti è non essere dimenticati, perché se la morte materiale termina con la fina della vita, la morte reale termina con la fine del ricordo. Solo quando nessuno più si ricorderà di noi, solo allora, saremo morti definitivamente.
Torno alla realtà e mi accorgo che navigo tra i miei pensieri oramai da un paio d’ore. Il traffico delle auto si è fermato e la notte oramai ha preso il posto della sera. Mi hanno turbato le riflessioni di stasera; mi sento malinconico, perché quei meravigliosi tempi fatti di povertà di beni e di ricchezza di sentimenti non torneranno più, e mi sento triste perchè queste nuove generazioni, nella loro inconsapevolezza, non avranno mai la fortuna di vivere ciò che la mia generazione ha vissuto.
Ma forse tutto non è perso, e riavviandomi verso casa, penso che domani raccoglierò intorno a me i figli e le figlie dei miei fratelli e li porterò con me al cimitero; racconterò loro di nonno Nicola con la fissa dei baffi, di nonna Felicetta e delle sue sfortunate vicende; ma racconterò loro anche di nonno Antonio e nonna Loreta, delle loro vite, dei loro sacrifici, dei loro aneddoti e di come festeggiavamo la notte di Halloween.
Torno a casa e mi sento più sereno, ceno e, prima di andare a letto, mi sovviene l’ultima usanza che caratterizzava la nostra festa dei morti: la tavola doveva rimanere imbandita per consentire ai defunti che passavano a salutare i parenti, di potersi rifocillare, di poter mangiare e bere, prima di tornare al loro riposo eterno.
Così faccio, lascio la tavola imbandita: pane, olio, vino, acqua, salame, melograno. “Una tavola un po’ povera” - penso - “ma tanto loro sono abituati e forse non gradirebbero altro.” Vado a letto, sereno e entusiasta per la missione che affronterò domani, tramandando i ricordi e tenendo in vita i nostri morti.
A notte inoltrata e dopo almeno tre ore di sonno, un rumore dalla cucina mi sveglia. Apro gli occhi nel buio e mentre sto per scendere dal letto, rifletto e torno a coricarmi, e felice riprendo sonno.
“Grazie per essere passati, nonni, vi voglio bene.”