Carillon

(Giuntini Cristina)


Do-Mi-Sol-Sol, Sol-Sol, Mi-Mi…
Le due ballerine, minuscole, stilizzate, con i gonnellini rigidi di velluto rosa, le braccia piegate in un rudimentale tentativo di port-de-bras e le gambe dritte che si aprivano e chiudevano intorno ai loro supporti, volteggiavano come trottole, riflettendosi nelle decine di specchietti rettangolari che facevano loro da sfondo. Non che andassero esattamente a tempo con la musica: d’altronde, a dipingere con le note il blu del bel Danubio non era certo l’orchestra del Musikverein, ma un minuscolo pettinino in metallo appoggiato su di un cilindretto ricoperto di sporgenze. Il suono era approssimativo, lontano anni luce da quella che gli appassionati avrebbero definito vera musica, ma bastava a far sognare la mia mente e il mio cuore, mentre lo ascoltavo. Dietro lo schermo di un vecchio televisore in legno chiaro, le due ballerine danzavano in una serata di gala, in uno show del Sabato sera che avesse trovato cinque minuti di tempo per presentare, fra una canzonetta e uno sketch comico, anche un momento culturale dedicato alla danza classica. Gli specchietti rimandavano l’immagine di altre dieci, venti, trenta ragazze in tutù, ballerine di fila che danzavano esattamente a tempo con le due protagoniste, in una coreografia perfetta, senza sbagliare un passo, un movimento.
A un certo punto, però, la musica iniziò a rallentare, e le danzatrici rallentarono con lei. Pian piano le crome si trasformarono in semiminime, le semiminime in minime, poi in semibrevi, finché l’eco del valzer si spense del tutto.
Sollevai il carillon con attenzione, cercando sotto di esso la chiavetta per ricaricarlo. Fu in quel momento che mia madre si affacciò alla porta della camera.
“Cristina!” esclamò, con voce severa. “Lascia stare il carillon di zia Maria!” “Lasciala fare, Paola!” intervenne la zia, conciliante. “Le piace così tanto!” “Potrebbe romperlo, ed è un pezzo unico!” Zia Maria sospirò: era vero, era stato suo marito a costruirlo, tanti anni prima. Era uno dei pochi ricordi che le restavano di lui. Rassegnata, posai il carillon sul cassettone e lasciai che mia madre mi portasse fuori dalla camera, via da quel sogno che non mi apparteneva.

“Sei pronta?” domandai a Stefania, lisciandomi gli strati di tulle che pendevano dai miei fianchi. La mia amica alzò gli occhi al cielo. “Oh, andiamo, Cristina! E’ solo un saggio di fine anno, e questa è la palestra della parrocchia!” Mi morsi le labbra. Era vero, niente da dire: ma a me quella palestra sembrava il Teatro alla Scala, malgrado fosse stipata solo di mamme e nonne con le sporadiche presenze di qualche padre e qualche fratello, e malgrado i nostri sgraziati tutù cuciti in casa con materiali di fortuna, e le scarpette morbide da salto al posto di quelle in seta con la punta di gesso, che ancora ci erano proibite. Alzai le spalle. “Abbiamo il pas de deux più bello di tutti, dovresti esserne orgogliosa.” “Beh, speriamo che il bonazzo in prima fila ci noti, allora…” “Il bonazzo? Ma che t’importa del bonazzo, siamo qui per ballare!” “Bah! Sei ancora una bambina!” Non ci fu tempo per ribattere: la porta si aprì, i riflettori noleggiati per l’occasione spararono la loro luce sulle nostre facce, e le delicate note di Chopin riempirono lo stanzone. Improvvisamente, fu come se alle nostre spalle si materializzasse uno sfondo di specchietti rettangolari, e davanti a noi uno schermo di vetro. Iniziammo a ballare: sì,
eravamo noi, le ballerine del carillon, chiuse nell’attimo eterno di un valzer prezioso e scintillante, fatto di passi armoniosi e di note che facevano danzare la mente e il cuore.
Il sogno era cresciuto, e scalpitava per diventare realtà; ma continuava a non appartenermi.

Spengo il PC, mi alzo dalla scrivania e mi infilo il cappotto. Saluto i colleghi con un cenno distratto della mano e mi avvio verso l’uscita. Piove. Mi aspettano il traffico, la cena da preparare, i piatti da lavare, e infine il sonno, già davanti allo schermo illuminato che vomita immagini brillanti e parole insensate, soporifere per la mia mente.
Lo dicono tutti: i sogni, a una certa età, svaniscono per far posto alla realtà, dura ma sensata, che fa piazza pulita delle inutili fantasie di bimba piene di cigni e nastri rosa.
Io, però, mi sento sempre dentro a un carillon.
E’ facile: un giro di chiavetta, e parto. I miei movimenti sono sempre uguali, sgraziati, meccanici, si ripetono all’infinito fino alla fine della carica e al prossimo giro di chiavetta, come quelli delle due ballerine che danzavano nel piccolo televisore.
La differenza è che io non ho uno sfondo di specchietti, ne’ un tutù di velluto rosa. Sono dentro a uno show, ma non a una di quelle serate di gala del Sabato. Il mio spettacolo va in onda ogni giorno, a ogni ora. E’ grigio, monotono, ripetitivo, privo di arte e di senso.
E, soprattutto, privo di musica.
Nonostante questo, ballo, infinitamente ballo, nella mia scatola di legno e vetro.
E le cariche si susseguono, senza fermarsi mai.