Francesco e Mamma Coraggio

(Giannuzzo Marino)


Mia moglie ed io eravamo giunti su, in Toscana, nel medio pomeriggio di un giorno dei primi di ottobre. Avevamo programmato quel viaggio da un paio di mesi. Quindi avevamo ceduto in permuta la nostra ormai anziana utilitaria in sostituzione di una nuova immessa sul mercato a buon prezzo per sopravvivere alla crisi economica che da alcuni anni imperversava su tutta l’Europa e, senza troppi preparativi, da Termini Imerese ci eravamo imbarcati per Civitavecchia. Eravamo giunti a Poggio Murella, dopo aver superato Manciano e le terme di Saturnia. Sergio e Nerina, i nostri amici, che da anni ci avevano invitati, e quasi pregati, di andare a trovarli nella loro piccola, ma graziosa, tenuta ci erano venuti incontro.
Tra i pini si scorgeva lontano l’azzurro del mare. All’orizzonte l’isola del Giglio e, proseguendo verso l’alto, l’infinito turchino del cielo.
Tra abbracci, risate, piccole confidenze sussurrate tra Dora, mia moglie, e Nerina, la moglie di Sergio, ci trovammo a tavola per il pranzo, ritardato quel giorno dai nostri amici per consumarlo insieme con noi.
Eravamo quasi alla fine del pranzo quando qualcuno s’annunciò al citofono. Era una coppia di amici dei nostri amici, che furono accolti in modo molto caloroso, come si è soliti in Toscana, ma anche in Sicilia, dove erano nate Nerina e mia moglie, che orgogliosamente proclamavano la loro provenienza e l’ospitalità dei luoghi della loro nascita.
Salvo e Luciana ci furono presentati come amici molto particolari. Essi erano i genitori di Francesco, un giovane a cui Sergio e Nerina, i nostri amici, avevano fatto da padrino e madrina di cresima.
Sia io che mia moglie non trovammo nulla di particolare in questa notizia, salvo il fatto che tra loro si era instaurato un vincolo di comparanza e che doveva esserci tra loro un forte senso di stima reciproca. Si parlò del più e del meno. Si raccontò qualche barzelletta. Si fece qualche risata. Poi Salvo e Luciana si prepararono per andar via non tralasciando di invitarci tutti di andare a trovarli. Ricevuta la promessa che avremmo trovato il tempo per recarci da loro si accomiatarono.
Qualcosa mi colpì quando si salutarono Nerina e Luciana. La prima chiese a Luciana notizie sulla salute di Francesco mentre Luciana, allargando le braccia e innalzandole impercettibilmente verso il cielo, fece affiorare sulle labbra un leggero mesto sorriso.
Andati via gli amici ospiti restammo tutti per qualche attimo in silenzio. Poi Nerina, rivolta verso me e mia moglie:
-hanno una bella croce sulle spalle questi nostri amici.-
Rimanemmo tutti muti. Poi Dora, quasi a bassa voce, per non turbare quel silenzio,
-perché, hanno qualche problema?- chiese.
-Ne hanno uno più grosso di una casa. Ma non è il caso che vi anticipiamo nulla. Se andremo a trovarli uno di questi giorni constaterete voi stessi. Per noi sono diventati gli amici più cari che abbiamo, senza che voi vi offendiate. Poi capirete il perché. Per ora non parliamone più.-
Si levò dal tavolo e si mise a sfaccendare dinanzi al lavello della cucina. Malgrado le insistenze di mia moglie non volle essere aiutata, sforzandosi di non restare silenziosa, come conveniva per dovere e per piacere di ospitalità.
Sergio, senza alcun preavviso, chiese a tutti e a nessuno:
-domani pomeriggio vi va di andare a trovare questi nostri amici?-
-Per noi non ci sono problemi, vero, Dora?- risposi io, rivolgendomi a mia moglie.
Mia moglie con un cenno affermativo del capo fece capire che neppure lei era contraria.
-Per te va bene, Nerina?- aggiunse Sergio, rivolto verso di lei.
-ok, va bene " rispose lei.
L’indomani, una splendida giornata autunnale, dopo pranzo e dopo avere rassettato velocemente la cucina, fummo sul fuoristrada, con Sergio alla guida, e ci avviammo per andare a trovare Salvo e Luciana.
Luciana ci attendeva, essendo stata avvisata telefonicamente da Nerina. L’abitazione consisteva in un vecchio cascinale tipico della Toscana meridionale, non molto ampio, non sfarzoso, ma comodo per chi ci abitava. Attorno poche case, alcune abbandonate o abitate in parte durante il periodo estivo. Un senso di pace e di tranquillità campestre dominava tutto il circondario. Qua e là qualche piccola coltura per i bisogni di famiglia, un grande albero di noci dietro l’isolato e un immenso albero di quercia verso oriente ad una distanza di circa cinquanta metri. Si riteneva che la quercia dovesse avere un’età non inferiore a settecento anni ed era da crederci, a giudicare dal diametro del tronco che alla base si presentava come un’ampia grotta che lo attraversava da una parte all’altra. Ognuno faceva le proprie considerazioni: chi commentava, chi estasiato ammirava muto, chi si esprimeva a monosillabi per confermare quanto veniva espresso da altri.
-E Francesco quando rientra?- chiese Nerina a Luciana.
-È quasi orario. Non dovrebbe tardare.-
Infatti dopo pochi minuti il suono di un clacson avvertiva che Francesco era arrivato. A muoversi per prima per andargli incontro fu Luciana, la madre, subito dietro di lei Salvo, il padre, Nerina e Sergio. Quando con passo più lento giungemmo io e mia moglie dove si erano fermati gli altri trovammo un pulmino della Croce Rossa con gli sportelli posteriori già aperti. Dora mi guardò come per chiedermi il perché della presenza di quel pulmino sotto il noce della casa degli amici dei nostri amici. Naturalmente io ne sapevo quanto lei e facemmo qualche passo ulteriore per guardare nel pulmino, sul retro del quale già l’autista, schiacciando dei bottoni su un telecomando, faceva venire a sé su un binario una sedia su una piattaforma. Sulla sedia un giovane di circa vent’anni, con la testa piegata da un lato, come se volesse spiare davanti a sé. Poi coadiuvato da una Crocerossina, con semplici manovre, l’autista fece adagiare la piattaforma con la sedia sul selciato e trasbordarono Francesco, che non aveva autonomia di movimenti in nessuna parte del corpo, su una sedia a rotelle a lui assegnata in dotazione. Fu allora che Luciana si lanciò verso il figlio e lo abbracciò con forte delicatezza. Se lo baciò sul viso e sul collo stringendolo al petto. Francesco allargò le labbra e la bocca in un largo sorriso. Sorrideva anche Luciana. Si sforzarono di sorridere tutti. Io e mia moglie eravamo mille miglia lontani. Ci chiedevamo di quali colpe si erano macchiati quei due genitori per subire una tale punizione, ma particolarmente quale colpa poteva essere attribuita a quel giovane se fin dall’infanzia era in quello stato. Guardai mia moglie assumendo un contegno il più naturale possibile ed anche lei, scuotendo un po’ il capo, si ricompose. Solo allora mi resi conto che Sergio e Nerina stavano osservando me e mia moglie.
Ci incamminammo verso casa. Qualcosa era stata modificata per rendere più agevoli i movimenti con la sedia di Francesco, il quale restò attaccato alla madre per tutto il tempo in cui ci intrattenemmo in loro compagnia. Quel figlio, ci si confidò, voleva soltanto la presenza della madre accanto a lui e quando Luciana, per motivi vari, doveva allontanarsi da lui bisognava usare mille sotterfugi per non farlo irritare e soffrire più di quanto era costretto dalla propria condizione. Tollerava talvolta quella di suo fratello, Mimmo, un bel giovanottone di diciassette anni, sanissimo, dipinto col pennello, diceva Nerina, il quale spesso, per fare compagnia a Francesco, rinunciava al divertimento del sabato sera insieme con gli amici, i quali però, conoscendone la situazione familiare, spesso decidevano di trascorrere la serata in casa di lui e tutti insieme riuscivano a far partecipare, in qualche modo, Francesco ai loro giochi e ai loro intrattenimenti. Erano quelle le serate che Luciana, meno gravata dalla necessità di badare costantemente a Francesco, si dedicava a preparare qualche focaccia o qualche tortina per i giovani amici dei suoi figli.
Eravamo già in piedi per andare via quando sopraggiunse Mimmo. Era stata fedele e sintetica Nerina nel definirlo “dipinto col pennello”. Alto, biondo, occhi verdi, bel portamento, brioso ma nello stesso tempo ponderato nelle parole e nei gesti. Aveva ricevuto dalla natura tutto quanto era venuto a mancare a Francesco, oltre che quanto sarebbe stato di propria spettanza, tanto che talvolta, in passato, aveva avuto dei sensi di colpa e si era sentito quasi defraudatore nei confronti del fratello, ma ormai aveva superato quella fase di vita e viveva come vivono i giovani della sua età. Ci fu presentato e, per poterci accompagnare fino al fuoristrada di Sergio, Luciana affidò subito a lui il fratello, il quale, vedendolo avvicinarsi, aprì la bocca in una larga risata. Mimmo gli sorrise e l’abbracciò sfiorandogli la fronte con le labbra, mentre Salvo con uno sguardo, non capivo se di soddisfazione o di rammarico, o forse misto dei due sentimenti, abbracciava quelle due sue creature.
Tutti salutammo Francesco e ci avviammo verso il fuoristrada. Ci fu qualche ulteriore preambolo prima dei saluti. Ultimo a montare sull’auto restavo io. Alle mie spalle Luciana e Salvo. Sentivo la necessità di dire qualcosa a quella madre. Mi voltai.
-Signora, glielo ha detto già qualcuno che lei è veramente UNA MAMMA CORAGGIO?- dissi d’un fiato.
Mi guardò quasi con tenerezza, ripensando a suo figlio Francesco. Mi sorrise mestamente e con quel sorriso negli occhi, gonfi di commozione, mi girai verso l’auto, salìi e non potei più guardare nulla e nessuno.