I boschi dell'anima

(Agnello Stefania)


Ogni volta che gli chiedevano il suo nome, piuttosto avrebbe preferito ricevere un pugno in faccia.
Silvano odiava profondamente la sua identità, le sue origini e l’amore affettato di sua madre che fin dall’infanzia, con aria dotta e canzonatoria, gli spiegava di aver scelto per lui un nome con un’antichissima origine latina, che evoca il fresco mistero delle radure boschive.
E come spesso accade, le scelte dei genitori marchiano a fuoco il destino dei figli. Il non più giovane Silvano in quei boschi dell’anima si era nascosto troppo spesso nella sua vita, fino a perdervisi definitivamente, senza poterne più uscire.
Fin da ragazzo vagava spesso senza mèta e senza ragione. Adorava camminare a passo spedito, come chi ha qualche incombenza urgente da portare a termine. Lo aiutava a non pensare e pensare lo avrebbe fatto impazzire. Così facendo schivava non solo i pensieri, ma anche la curiosità della gente, che di norma non intralcia con pettegolezzi chi nella vita mostra di essere impegnato.
A scuola sarebbe stato un ottimo studente se fosse stato lui a dettare i tempi. Potremmo dire che era “fuori fase”, nel senso che non si preparava per le verifiche, ma quando decideva lui e solo sugli argomenti che lo interessavano. Da quando aveva imparato a scrivere lo preferiva di gran lunga al parlare: odiava il suono grave della sua voce e ciò lo rendeva piuttosto taciturno.
Con riferimento alla sfera sentimentale, a suo dire, non si era mai innamorato. Eppure non era brutto ed, escludendo un’eccessiva riservatezza, era di buon carattere. Non aveva mai pensato di farsi una famiglia perché provava disagio nei confronti della convivenza con un altro essere umano. Riguardo a sua madre, non era mai riuscito a trovare in lei alcun conforto, nemmeno da bambino: ormai aveva smesso di chiedersi perché non comprendesse le sue ansie, ne aveva preso atto e non appena ne aveva avuto la possibilità era andato a vivere per conto suo.
L’unica cosa che gli dava conforto era il suo lavoro, nato da una passione casuale e sconosciuta. Una volta, alla radio, aveva sentito dire che una casa discografica aveva bandito un concorso per autori di testi musicali. Lui aveva sempre qualche appunto nei suoi cassetti segreti, buttato giù durante quei momenti in cui l’anima strisciava nel sottobosco della vita. Ne prese uno a caso e lo spedì. S’intitolava “La danza del camaleonte” e raccontava di una piccola creatura della foresta che aveva imparato a mimetizzarsi fra i colori, non per sfuggire ai predatori quanto piuttosto per occultare un aspetto di cui si vergognava terribilmente. Quando era certo di essere invisibile, il camaleonte si librava in una danza affascinante e misteriosa, che lo sollevava da terra e gli faceva assumere le sembianze di qualunque animale immaginasse di essere. Vorticava finché ne aveva voglia e fino allo stremo delle forze, ma quando si arrestava anche la musica finiva e tornava ad essere un animaletto insignificante e privo di colore.
Vinse il primo premio e fu contattato dalla casa discografica interessata ad altri testi simili. Dopo un anno di collaborazione saltuaria, gli fu formulata una proposta di contratto piuttosto vantaggiosa. Ciò che a Silvano piacque particolarmente e lo spinse a firmare con entusiasmo fu il fatto che si trattasse di un lavoro da poter svolgere nel riparo di casa sua e che qualunque contatto con il suo datore di lavoro o con i colleghi fosse quasi sempre per iscritto. E soprattutto non gli costava alcuna fatica: quei testi sgorgavano spontaneamente dal suo intimo e li avrebbe scritti comunque. Tanto meglio se gli davano da vivere.
Ad un tratto: la svolta.
Come fosse giunto lì, in quella mattina di ottobre, non se lo ricordava. Osservava la cera di una candela che bruciava lentamente, insegnando che il tempo scorre ed estingue ogni cosa. Le ultime percezioni sensoriali, registrate consapevolmente nella sua memoria, erano state l’odore del cloroformio misto all’incenso e un raggio di luce azzurrognola sul marmo di un altare, sul quale risaltava un calice candido. Ora il bianco risaliva verso di lui, lo avvolgeva, presto lo avrebbe impietosamente investito e mille occhi cominciavano a scrutarlo. Sapeva che qualcosa di tagliente avrebbe divorato la sua carne e una gran voglia di fuggire cresceva in lui.
Le gambe gli sembrarono improvvisamente leggere e capaci di condurlo con un balzo in capo al mondo. Sollevandosi da terra, si accorse che l’uscio era aperto: niente o nessuno lo avrebbe trattenuto in quel posto. Poteva andarsene quando voleva, ma era nudo. Per questo motivo i suoi aguzzini non avevano preso alcuna precauzione per trattenerlo, conoscevano bene il suo innato senso del pudore, che in realtà era un atterrito imbarazzo nel mostrare i genitali. I denti digrignati cominciarono a battere convulsamente. Da un momento all’altro poteva entrare qualcuno, ma - se anche non fosse arrivato nessuno - sapeva di non essere solo: più di una persona lo stava osservando nell’ombra. Uomini e donne completamente vestiti, forse mascherati, con lo sguardo violavano la sua intimità e presto con le mani avrebbero cominciato a frugare nel suo corpo.
Doveva assolutamente scappare. Non gli restava più molto tempo per nascondersi.
Chiuse gli occhi e percorse un lunghissimo corridoio privo di ostacoli. Quel luogo era esageratamente illuminato per i suoi gusti. Nonostante tenesse le palpebre ben serrate , la luce tormentava le sue pupille. Le mani in avanti per non inciampare, finché all’improvviso non si curò più della sua nudità. I piedi correvano veloci, sempre più veloci, e quando giunse all’esterno dell’edificio, gli parve che quello spazio fosse al di fuori delle leggi di gravità. A quel punto anima e corpo avevano lo stesso peso, quello dell’aria.
Fluttuava libero come una farfalla e, come tale, cercò riparo nella boscaglia, consapevole che in qualunque altro posto non poteva essere al sicuro. Penetrò nel folto di ranuncoli e margherite e cominciò a sentirsi libero come non era mai stato in vita sua. Percepiva distintamente ogni sfumatura di profumo, era attratto dai colori vivaci e si abbandonava ad un fluido vitale inebriante che gli pulsava dentro.
Mentre assaporava nuove ineffabili sensazioni, fu improvvisamente distolto da un inconfondibile suono sordo e cadenzato: le campane di una chiesa che suonavano a morto. Stava per iniziare un funerale. Avrebbe potuto infischiarsene, lui stava bene lì, finalmente aveva trovato la sua dimensione. Ma non lo fece. Quel richiamo non gli era indifferente, anzi in un certo senso lo riguardava, pur se non ne comprendeva il motivo. Magneticamente attratto da quel suono, volò nella direzione da cui proveniva, finché vide in lontananza il corteo funebre che si avvicinava alla pieve per la celebrazione del rito. Non c’era molta gente a seguire il feretro, ma in testa alla fila notò una giovane donna disperata, con il capo velato e il passo malfermo. Era strano, l’aspetto di quella donna gli era così familiare…
“E’ mia madre!” - esclamò esterrefatto - “Ma è mia madre da giovane, come la ricordo da bambino…” e svolazzando sopra di lei, la osservava incredulo.
“Perché piange così disperata? Chi è morto?” " si chiedeva inquieto e, intanto, dentro di lui montava un irrefrenabile sentimento di pietà. Avrebbe voluto abbracciarla, consolarla. Prima però doveva sapere cos’era successo e poi comunque avrebbe dovuto rinunciare alla sua natura di farfalla, perché in quello stato non poteva manifestarle la sua presenza ed entrare in contatto con lei.
Un battito d’ali controvento gli fu sufficiente per voltarsi verso la bara e scorgere dall’alto, fra le corone di fiori, il nome inciso sulla targhetta d’ottone: il suo.
Era suo il feretro che stava per essere sepolto! Ma com’era possibile? Lui stava benissimo, anzi non si era mai sentito meglio di così … Si trattava forse di uno scherzo? No, le lacrime di sua madre erano vere e ognuna di quelle lacrime gli trafiggeva il cuore.
Se solo avesse voluto, avrebbe potuto porre fine a quello strazio: bastava rinunciare alla sua nuova identità e tornare ad essere Silvano. In quel caso, tutti avrebbero capito che si era trattato solo di un equivoco e sua madre avrebbe smesso di piangere.
Stava per farlo. Era deciso, non riusciva a sopportare oltre lo strazio di quella povera donna.
Un istante prima, però, gli sovvenne in soccorso un ricordo: l’immagine di un altro funerale, celebrato qualche tempo addietro, quello di sua madre. Sua madre era morta in età avanzata e lui le era stato accanto fino alla fine, senza averle mai dato alcun dispiacere.
E allora tutto era compiuto. Il suo sacrificio non serviva più. Poteva continuare a volteggiare beato, leggero come una farfalla, tra i flutti dell’aria e della vita. Si sentì sollevato e tornò verso la radura alla ricerca delle fresche fronde arboree, in quei boschi dell’anima dove avrebbe fissato la sua nuova dimora.
“Buongiorno! Come si sente?” " gli disse, ad un tratto, una graziosa infermiera, mentre gli strattonava dolcemente un braccio per riportarlo alla realtà. “L’operazione è finita. E’ andato tutto bene.”
Quando aprì gli occhi, la vide armeggiare con la flebo e si rese conto di ciò che era accaduto. Un dolore bruciante lo avvolgeva dal basso, ma le sorrise. Poi lei si chinò per chiedergli: “Quale nome vuole che scriva sulla cartella clinica e gli altri documenti? Va bene Silvana o ne preferisce un altro?”.