Una storia

(Mandia Giuseppe)


La tua linea è un orizzonte pacato
ha cauti occhiali.
Violaceo è l’alveo
che scomposto poggia sul tuo dorso.
Hai sorriso morbido
in quelle acque turgide
avviluppate in un gorgo lucido.

Il cestino che ho intravisto
l’hai lasciato alla frontiera: dea adolescenza.
Con te ha viaggiato un vestito
più nero d’un eremo.
Gocce di distanza, perle di una grandinata
che ha straziato la seta
di una cravatta sbagliata.

Tremano le guglie di quei giorni
che non avevano passi
ma solo ancore di cioccolata
in un carcere di epicurei.
Trentacinque natali sono troppi anche per me
famiglia-dipendente
disoccupato di cari.

Senza templi aperti
qui non posso pregare
né manifestare all’esterno, in solitudine
per un risveglio tra arredi e quadri salsi.
I mosaici li ho spediti
a un nume arcano ancora fecondo
pur se figlio di libri anziani.

Immagino una rètina
divisa per panorami pagani, difformi.
È carta velina
la mappa che vedo e non vedo
che alle dita oppone un rifiuto
e mi bisbiglia,
due sandali alati.