La magia del lievito

(Matilde Ida)


Amo fare i dolci lievitati; una passione che esplode con tutta la sua forza nelle festività natalizie e mi impegna per ore, a volte per giorni, senza che avverta il benché minimo fastidio. E' un rito, l'incontro con la tradizione che si rinnova; è un riallacciare i fili con il passato, che mi gratifica e mi fa stare bene.

Pochi gesti inconsapevoli, dettati da una memoria storica forse, la farina a fontana, le uova nel piccolo cratere al centro, le dita che sbriciolano il lievito nel tuorli, pronte ad acciuffare i rivoli di composto che tendono a scivolare di lato; le dosi a "occhio", un pizzico di sale, un pugno di zucchero, e le mani, dotate di una volontà propria, cominciano il loro lavoro.

Gli ingredienti appena incontrati si pietrificano in un abbraccio strettissimo, prendono forma, consistenza; sul marmo infarinato, la pasta dura resiste ai miei assalti costanti, e come un amante reticente, sembra non volere arrendersi. Ma il mio ritmo è incalzante, continuo; alla fine è costretta a cedere, diventa morbida, elastica, maneggevole. I palmi e i polpastrelli avvertono subito la resa e movimenti cambiano, si addolciscono: comincia così il gioco d'amore di volute e piroette, schiaffi e carezze, tra mani e impasto.

E' in quel preciso istante che avviene la magia, che i miei fili si riallacciano con il passato: la mente si libera da ogni pensiero e prende a vagare all'indietro nel tempo. Sono nella grande e luminosa cucina dei miei nonni materni.

Una pentola dal fondo annerito fuma sopra uno strano fornello, incassata in un cerchio di ferro scuro; tutto intorno, piastrelle bianche lucidissime e in basso, una porticina color carbone, dove nonna di tanto in tanto, infila dei pezzi di legno profumato di pigne. Nell'angolo, accanto alla finestrella affacciata sui campi, le donne della famiglia sono riunite attorno a un largo ripiano di marmo addossato alla parete. Le loro teste, avvolte nei fazzoletti colorati annodati sulla fronte, con i folti ricci bruni che scappano ovunque, sembrano uno scorcio di campo fiorito sorvolato da farfalle nere - da grande ne scoprirò l'affascinante nome di Catephia alchimista - e il cielo, negli sprazzi d'azzurro che a tratti si intravedono tra i loro movimenti, è terso e lucente, come sa esserlo solo nelle fredde giornate d'inverno; la luce esterna entra a fiotti e investe le mani che affondano nella pasta, a ritmo incessante.

Ogni donna - mia madre e le sue quattro sorelle - ha la propria sfera di impasto giallino che vola sul marmo infarinato, mentre chiacchiere e risate riempiono l'aria di festa annunciata. Io mi avvicino al grande tavolo che troneggia al centro della stanza; è coperto da un uno scialle di lana a quadri azzurri e marroni, con la frangia tutto intorno a forma di fusilli arrotolati stretti. Un'occhiata furtiva verso la finestra: nessuno di loro bada a me, intente come sono a discutere sulle portate del pranzo di Natale. "Speriamo vinca zia Tata" mi dico, mentre sollevo un lembo del pesante tessuto. "Non voglio mangiare il coniglio al forno, meglio il pollo! I conigli sono morbidi e carini e sono anche molto più simpatici delle galline!" Sbircio il ripiano nascosto, e come ogni volta rimango senza fiato.

Le ciambelle, una lunga fila di ciambelle ordinate una dietro l'altra, una di fianco all'altra, per tutta la grandezza del tavolo, da che erano sottili come un dito, sono diventate gonfie e alte e grosse, pronte per cadere nell'olio bollente che le aspetta sul fuoco. Zia Tata, la mia zia preferita, si gira e mi strizza l'occhio. " Piccola, che ne dici, il lievito ha fatto la sua magia anche stavolta?" Sorrido in risposta e annuisco vigorosamente. "Sì, l'ha fatta!!! Corri vedere come son grosse!"

La magia del lievito.

Sorrido ancora pensando che c'è un qualcosa di sensuale in questo rito, mentre tra le mani continuo ad arrotolare bastoncelli di impasto: ne stacco dei pezzi lunghi una quindicina di centimetri e li avvolgo su se stessi, facendone combaciare le estremità. Ed ecco che, ciambella dopo ciambella, il mio tavolo si riempie. Lo scialle di lana a quadri azzurri e marroni, tirato fuori dall'armadio per la grande occasione, è ripiegato sulla sedia. Lo avvicino al viso e lo annuso: sa di buono e di ricordi. Lo dispiego e lo stendo con cura, ricoprendo ogni angolo del ripiano. Ora bisogna solo aspettare la magia; non mi importa sapere che è soltanto merito di una reazione chimica; per me il fascino della lievitazione è ancora intatto, così come accadeva anni fa. E così come accadeva anni fa, so che non sempre avviene: basta poco, una corrente d'aria, la combinazione sbagliata delle dosi, un ingrediente inadatto e l'impasto si rifiuta di collaborare, rimanendo ostinatamente "seduto". Sarà per questo, per la sfida che contiene, che mi è sempre piaciuto fare questo tipo di dolci, scrutare con ansia la loro trasformazione, seguire soddisfatta il loro lento e progressivo gonfiarsi.

Sarà per questo - proprio come accadeva a Connie Chatterley mentre spiava le intime nudità del guardiacaccia Mallory - che mi ha sempre incantata l'oscuro meccanismo dell'erezione?