La vara posseduta

(D'Agostino Francesco)


Guerino era un giusto, già si definisce così un uomo dalla condotta irreprensibile, buono, con delle speciali doti cui molti nella piccola comunità di Portello erano grati nell’aver risolto tanti problemi. Veri miracoli a detta degli intimi, frutto delle semplici litanie che offriva alla vergine addolorata di cui era molto devoto, riconoscendole i meriti di tante guarigioni. Puntualmente respingeva con garbo gli apprezzamenti pieni di gratitudine e commozione della gente che si accalcava davanti al suo uscio. Dove lui instancabilmente, dopo aver dato ascolto alle loro richieste, consigliava di prostrarsi fiduciosi ai piedi della vergine della parrocchia di Portello, ricadente come tante, in una modesta frazione rurale del nostro paese.
La statua della vergine raffigurava una pietà seicentesca di manifattura locale, la si portava in processione il giorno del venerdì santo lungo il corso principale del paese, posta sulla vara trainata dai membri della congregazione. Eppure nonostante tutta quella grazia riversata nella comunità, nessuno sapeva dare una ragione alle sventure che ultimamente erano cadute sul capo di Guerino.
Ebbero inizio con la morte della moglie, poi durante un forte temporale dei fulmini apocalittici accompagnati da fragorosi boati nella notte, fecero scaturire l’incendio e distrusse tutto l’intero suo piccolo podere, il raccolto e gli animali. Perse tutto, in ultimo il primogenito, a nulla valsero le sue suppliche strazianti rivolte alla fidata vergine; mai tanto dolore fu visto, da quel giorno digiunò lasciandosi trascurare nella salute e nel suo aspetto.
Nonostante la povertà mostrava una immagine dignitosamente piacevole: fisico possente ed una eleganza nel portamento, purtroppo compromesso dalla sofferenza. Parenti, amici a turno cercarono in tutti i modi di dargli aiuto e conforto, ma lui sdraiato nel suo letto, con un filo di voce li esortava a lasciarlo nella scelta di farsi morire. Ormai nulla poteva colmare tutto quello che aveva perso: i suoi cari familiari ed in ultimo i suoi averi. Terminarono i cortei delle visite, resistette per un pó qualche frugale appello degli intimi, fin quando lo dimenticarono del tutto.
Meno addolorato lo era il parroco don Melo, tracagnotto, ben in carne, col faccione tondo dall’espressione giuliva ed il suo proverbiale tic. Quando era nervoso gli si accentuava una contrazione convulsiva al collo, facendogli scuotere continuamente la testa indicando involontariamente un cenno di negazione, procurando non pochi equivoci ed imbarazzo agli interlocutori.
In fondo da lunghi anni veniva sottratto dal prestigio di pastore d’anime, sospettoso, con ben poco piacere osservava di essere continuamente snobbato dalla comunità dei fedeli, che veniva assorbita dal carisma di Guerino. Esortandoli di tanto in tanto alla prudenza: nel diffidare dei clamori, e dalle facili conclusioni di definire evento soprannaturale tutto ciò che proviene dall’umano.
Con Guerino che a sua volta era un membro della congrega, in passato si era scontrato più volte, ponendogli di continuo perniciose interrogazioni e spiegazioni varie sulla provenienza delle sue capacità. Guerino invano spiegava con docile disarmo, quasi a vergognarsi di quel privilegio, che lui stesso non sapeva dare spiegazione del suo dono. Quello che soleva dire, ed era sotto gli occhi di tutti, delle sue semplici preghiere che offriva alla madonna per intercedere alle pietose e struggenti richieste di aiuto per le guarigioni, sia fisiche che spirituali.
Non contento don Melo, la stoccata finale la volle dare proprio il giorno del venerdì santo, nella messa che precedeva la processione. Con grande oratoria nell’omelia, lanciò la condanna su tutti gli eventi straordinari del passato. Accusandole come opere del maligno, intento a confondere ed allontanare la povera gente dalla verità, che abbonda solo in seno alla madre chiesa. In ultimo puntando il dito verso la direzione nota ai presenti, denunciò tutto il fallimento e la disperazione di chi confidava solo nella superstizione. Raggiante di gioia si mise a capo del corteo: con i chierici, la fila dei portatori di stendardi e gonfaloni, le pie donne, e la processione ebbe inizio. La vara con un lungo applauso venne fuori dalla chiesa, preceduta dalle note della banda musicale, percorrendo il corso del paese già addobbato di luminarie ed archi trionfali.
Il maligno chiamato in questione da tempo bazzicava nei dintorni, ricevuto il permesso di agire volle dare il meglio della sua performance; prese possesso della vara lanciando bestemmie da far accapponare la pelle. Scuotendola da cima a fondo, trascinandola con violenza, compreso i membri della congrega, che la sostenevano con i bracci di legno sulle spalle. Non riuscendo a governarla, si trovarono malvolentieri nella furia a calpestare tutto ciò che stava davanti: i chierici compreso don Melo, la fila dei fedeli, la banda musicale, lasciando una fetida scia di zolfo alle sue spalle, per poi proiettarsi immediatamente in fondo al corso, schivando a malapena la fontana civica.
Si bloccò di botto, sollevandosi di qualche spanna dal suolo, ahimè, fu allora che scoprirono di stare condannati a non scollarsi dal braccio di legno, rimanendo a penzoloni, con lo sghignazzo del maligno in quella scomoda posizione. Nel fuggi fuggi generale, il povero don Melo rialzatosi dolorante, tutto impolverato con passo claudicante in mezzo a tromboni, gonfaloni, flauti e spartiti disseminati a destra e manca cercò di raggiungere la vara. Postosi di fronte ad essa con sgomento stette a bocca aperta ad osservare quella scena surreale, incrociò lo sguardo vitreo dell’addolorata, che osservava in basso non soltanto il corpo deposto e martoriato del figlio, anche di quei malcapitati ciondolanti, che invocavano aiuto a don Melo ed ai compaesani di liberarli da quell’incubo. Subito dopo alcuni riavutasi dalla sorpresa cercarono con dei balzi di aggrapparsi ai loro corpi nel tentativo di staccarli, mentre don Melo con tanto di croce in mano con l’aspersorio nell’altra, diede inizio ad un maldestro tentativo di scongiuro.
Ancor peggio la vara fece delle violente piroette, subito dopo scuotendosi, si scrollò di dosso coloro che erano aggrappati nel tentativo di liberare i portatori della vara facendoli rotolare per terra, volando nuovamente lungo il percorso che conduceva verso la campagna. L’intera comunità provata dal fenomeno cercarono aiuto presso le forze dell’ordine. Gendarmi, vigili e pompieri invano nel tentativo di intervenire ebbero la peggio, le pie donne si affrettarono a radunarsi per la recita del rosario, finchè nel paese scese la sera. La voce si diffuse nelle vicine contrade, tutti accorsero ed ognuno diceva la sua, nell’organizzare un piano strategico di liberazione dell’oscuro problema che presentava la vara. Don Melo rientrò in scena, e con fare rassicurante, informò i presenti nell’aver preso contatto con il proprio vescovo ed avrebbe mandato subito l’esorcista della vicina diocesi, garantendo il pieno controllo della situazione.
Il tutto avveniva mentre laggiù nell’orizzonte della campagna la luna piena con il suo grande disco argenteo illuminava la vara. Se ne stava sospesa con sotto il latrato dei cani, le mogli piangenti ed imploranti, ma il maligno sordo, beffandosi di loro, faceva danzare la vara in quella macabra coreografia. Padre Cirillo, l’esorcista diocesano dall’aspetto mite, magro, allignato, con un paio di occhiali le cui lenti ingrandivano a dismisura gli occhi cerulei roteanti in quel piccolo viso scarno e scavato dalle rughe, arrivò all’alba. Non si perse tempo, subito accompagnatolo ai piedi della vara con fare meticoloso senza dare ascolto alle sfide e gli improperi del maligno preparò il tutto, ed ebbe inizio l’esorcismo.
Fu una lunga lotta di resistenza tra le intimazioni, aspersioni di padre Cirillo, le risposte irriverenti del maligno e nonostante si presentasse così mingherlino, l’esorcista dimostrava grande coriacea e determinatezza nel non mollare, ma, il maligno teneva il possesso pieno della vara ed a farne le spese furono quei poveri uomini penzolanti che venivano sbattuti su e giù nel terreno. Ora da un lato sui tronchi dell’albero, ora dall’altro lungo un muro di recinzione. Don Melo più nervoso del dovuto, il viso gli si era imperlato di sudore, stava a leggere nel recitare assieme a don Cirillo le preghiere di liberazione e spazientito finiva già per saltare qualche rigo. Il suo tic peggiorò, gli fece oscillare il capo al punto da destare ai presenti la sensazione come se gli si dovesse staccare la testa dal collo.
Preso dal sacro furore, improvviso, perse completamente le staffe ed inveì scagliandosi contro la vara, colpendola con veemenza alla base di essa con schiaffi e pugni. Per tutta risposta la vara si sollevò sopra il suo capo e con violenza lo schiacciò sotto di essa, miracolosamente nello scivolare dentro la cavità della scarpata del terreno, evitò di rimanere colpito dall’intradosso della vara. Subito lo sollevarono, e lo trascinarono lontano per evitargli il peggio. Dopo diverse ore sotto quello stillicidio, uno dei portatori ebbe un presentimento, e biascicò con la poca voce che gli era rimasta in gola la soluzione ultima di chiedere aiuto a Guerino.
Al solo nome pronunciato, la vara si poggiò di botto al suolo, il segnale la diceva lunga davanti l’esito fallimentare dell’esorcista. Presosi coraggio raccolsero le ultime forze ed all’unisono decisero di trascinarsi al vicino podere di Guerino. Arrivati davanti la porticina, lo esortarono in coro ad alzarsi dal letto ed uscire fuori. Guerino affacciatosi, alla vista dell’addolorata si inginocchiò, pregò con fervore, in ultimo baciò le punte delle dita per poi rivolgere la mano in segno di gratitudine, quasi benedicente verso la statua. La vara a quel punto ebbe un sobbalzo ed il maligno ne fuggì via mandando un urlo prolungato, perdendosi in lontananza.
Finalmente gli uomini liberatosi dal braccio di legno crollarono sul suolo, esausti si sdraiarono sul morbido manto d’erba, ringraziando il cielo ed il loro beniamino. Da quel giorno la vita a Portello si ripristinò nella consuetudine di sempre. Guerino si riprese, prosperando nell’affetto caloroso dei suoi compaesani. Certo è, che ben poco capirono don Melo e padre Cirillo dello smacco subito: nella diocesi, e nelle alte sfere del clero s’interrogarono a lungo su un primato perso, e avviliti dal successo operato misteriosamente da un soggetto laico. Si disse che in gran segreto indagarono per vederci chiaro in tutta la faccenda. Ogni tanto delle figure misteriose si mischiavano nella fila d’attesa per conferire con Guerino, origliando e scrutando in giro.
Persino i proprietari dei terreni confinanti il podere di Guerino, si accorsero di alcune telecamere e di strani strumenti piazzati di nascosto. Qualcuno dietro una roccia nella presunzione di non essere visto, col binocolo ed auricolare in attesa di cogliere in flagrante l’indagato, di tanto in tanto, stizzito, dava comunicazione di non scorgere all’interno della casa nessun amuleto, pentacolo o sfogliare le clavicole di Re Salomone…no, nessuno indizio!