Fibonacci

(Campo Massimiliano)


M’ama, non m’ama, m’ama, non m’ama…
Il vecchio strappava uno a uno, con un pizzico di sadismo, i candidi petali di una margherita colta sotto una panchina del parco.
Aveva ottantadue anni e un’aspettativa di vita ridotta all’osso, ma non gliene fregava niente.
Ogni petalo bianco che cadeva per terra era una sua carezza, un suo sorriso, una sua parola dolce spesa solo per lui, molto tempo prima. Perché lo aveva lasciato? Certo, era nell’ordine delle cose - per tutti sarebbe stato così prima o poi, anche per lui - ma questa banale considerazione sul cerchio della vita non bastava a colmare la sua indicibile sofferenza. Lei non c’era più e adesso contava solo questo. L’uomo aveva smesso di vivere nel preciso istante in cui la sua metà, l’unica che avesse mai avuto, la sola cosa che avesse desiderato nella vita, aveva chiuso gli occhi.
«Trentaquattro, cinquantacinque o ottantanove?»
Il vecchio trasalì.
Un bambino dai capelli biondi era apparso dal nulla, nel parco deserto di quell’assolato pomeriggio d’estate.
Era lì davanti a lui, in maglietta e pantaloncini azzurri e un vecchio pallone di cuoio tra le mani sporche di terra.
«Buongiorno, ragazzo!» rispose il vecchio sorridendo. «Dicevi, scusa?»
«Se i petali erano trentaquattro, cinquantacinque oppure ottantanove…»
L’uomo guardò il mucchietto bianco sotto i suoi piedi. «Non so, non li stavo contando… direi una trentina.»
«Allora erano trentaquattro!» esclamò il bambino con un largo sorriso e le sopracciglia all’insù da saputello.
«Può darsi, ma come fai a saperlo?»
«Fibonacci!»
«Come?»
«Fibonacci, no? La sequenza di numeri… mai studiata a scuola?»
«Boh, non ricordo, sono passati secoli… forse. E sarebbe? Aiutami.»
«Una serie di numeri che è presente ovunque in natura: nei petali dei fiori, ad esempio.» Alzò il mento verso il mucchio di petali. «E nella disposizione delle foglie sui rami di un albero, nella forma a spirale di certe conchiglie, nelle proporzioni del volto umano e in quelle del corpo. E poi nell’albero genealogico delle api, nel ciclo riproduttivo dei conigli e…»
«Ho capito, ho capito!» lo interruppe il vecchio. «Adesso ricordo. Mi stai parlando dell’armonia dell’universo, ma questa è matematica, ragazzo mio. Dio non c’entra, Dio…»
Stavolta lo zittì il bambino, che nel frattempo aveva posato il pallone per terra e si era seduto sulla panchina accanto a lui. «Sei tu che stai parlando di Dio, io non l’ho fatto.»
Dove vuoi andare a parare, ragazzino? pensò l’uomo. Perché alla fine è qui che vuoi arrivare. Siamo solo “carne animata” o c’è un essere supremo? Perché se ci fosse veramente un dio, sarebbe Amore, e tutta questa dannata sofferenza, questo inferno che mi sta lacerando l’anima ogni giorno di più non esisterebbe neppure.
«Ma…»
L’uomo aveva aperto la bocca per aggredirlo, ma poi si era fermato: non voleva privare un innocente della fede in qualcosa o qualcuno che per lui non aveva più senso, ma che per l’altro magari faceva la differenza. Senza di lei era diventato quasi un mostro, ma c’era ancora una sottilissima linea di demarcazione tra quel po’ di buono che albergava nel suo cuore e l’abbandonarsi a uno spietato cinismo.
Il bambino intanto aveva smesso di fissarlo. A testa china dondolava i piedi avanti e indietro. Sembrava impaziente e amareggiato.
Con un filo di voce borbottò: «Mario, non smettere di sperare.»
«Cos’hai detto, scusa?»
Il bambino alzò lo sguardo verso il vecchio, posando i suoi grandi occhi verdi sui suoi. Vibravano come la luce delle stelle. Gli ricordarono lo sguardo di lei, tanto profondo che a volte doveva chiudere gli occhi, per paura che gli entrasse dentro. Ma non era possibile ovviamente. Si sentì a disagio non capendo perché.
«Ho detto solo: ‘Ora, me ne devo proprio andare’.»
«Ci vediamo!» aggiunse e con un colpo di reni saltò giù dalla panchina. Poi corse verso l’uscita del parco, lasciando dietro di sé una nuvoletta di polvere rossa.
A un certo punto però si fermò, si girò verso l’uomo e gli gridò gesticolando: «LA DISTANZA TRA I PIANETI E IL SOLE…»
«Fibonacci?»
Il bambino gli sorrise, strizzò un occhio e alzò il pollice. Poi si rigirò, riprese a correre e un attimo dopo scomparve dietro il cancello.
L’uomo, che a sua volta aveva preso a sorridere, dimenticando per un attimo la sua mesta condizione, scrollò dolcemente la testa e raccolse il giornale dalla panchina. Così facendo si accorse del pallone.
«Hey ragazzo, aspetta!»
Lo chiamò una seconda volta e una terza, inutilmente.
Allora posò il giornale, strinse il bastone e si alzò con un gemito.
Prese a camminare svelto verso l’uscita. E non era solo per il pallone. Un dubbio gli si era infilato in un orecchio e aveva iniziato a rosicchiargli il cervello: non aveva mai detto il suo nome al ragazzo.
Quando finalmente raggiunse il cancello, con la mano libera si appoggiò allo stipite di ferro riprendendo fiato. Scrutò a lungo la strada deserta. L’asfalto fumava debolmente. Silenzio. Solo il frinire delle cicale alla sue spalle. Ma non c’era nessuno.
Strano. Avrebbe dovuto scorgerlo in lontananza da qualche parte.
Poi ritornò alla panchina sempre più perplesso. Si sedette facendo un’altra smorfia e appoggiò il bastone accanto a sé.
Fece per riprendere il giornale, con l’intenzione di concentrarsi su qualcosa di più concreto, qualcosa che in qualche modo lo tranquillizzasse, perché all’improvviso si era sentito confuso e smarrito e… angosciato? sì, anche angosciato. Quello strano incontro alla fine lo aveva costretto a rimettersi in discussione e forse qualcosa di più, anche se non voleva ammetterlo, forse anche a sperare. Ma non poteva esserci un dopo, né un inferno, né un paradiso ad attenderlo. Non c’era niente dopo. Assolutamente niente. Era solo col suo dolore, e solo avrebbe lasciato questo mondo infame.
Abbassò gli occhi sulla panchina e si accorse che il pallone del ragazzo, nel calma piatta di quell’assolato pomeriggio d’estate, non c’era più.