I premio letterario "Una perla per l'oceano"

Il Varco

(Galaffu Giovanni)


Le travi non avrebbero resistito a lungo. Non con quelle funi ricavate da filamenti di canne marce. Ancora non riesco a spiegarmi come sia stato capace di legarle tra di loro e a farle reggere per così a lungo. Presto sarebbe finito tutto. La zattera mi avrebbe abbandonato, si sarebbe sfaldata sotto le mie membra. La corrente si sarebbe impadronita delle mie travi.
Un raggio più forte degli altri mi aveva svegliato. Le labbra avevano smesso di sanguinare, e ormai non riuscivo a dissetarmi nemmeno col mio sangue: le gocce erano state assorbite da quell'aridità che pareva risucchiare ogni cosa bagnata. Tutto, tranne quel mare viscido.
Un mare giallo e disgustoso. Perfino la schiuma delle onde era unta. Quella distesa avrebbe disgustato anche l'antico marinaio.
Intorno a me non vi era nulla che non fosse acqua.
Ma mi sbagliavo. Mente e lucidità mi stavano abbandonando, solo quando mi liberai gli occhi dalla crosta giallastra di cispa, mi resi conto di trovarmi in una baia. Una baia di acqua lurida e viscosa. Una baia priva di spiaggia, semplicemente circondata da scogliere alte e taglienti. Le rocce vomitavano dei muschi ancora più disgustosi della schiuma giallastra.
Potevo vedere il fondale. Forse, se avessi abbandonato la zattera, e mi fossi gettato in acqua, avrei anche potuto toccare quella sabbia con i piedi, senza essere costretto a nuotare; le mie forze non me l'avrebbero permesso. Perciò lasciai la mia pelle a contatto con quelle travi marce.
Poi capii il motivo; capii il motivo del giallo delle acque. Rovesciati alla rinfusa - come decine di tessere di domino cadute - degli enormi barili verdi e grigi ricoprivano il fondale. Era impossibile non distinguerli; e ognuno di loro era squarciato, e rovesciava nelle acque litri di liquido denso e viscoso. Le piante morivano, i pesci andavano a cozzare le loro teste contro gli scogli, quasi che non esistesse una via di fuga da quella baia.
Cominciai a pensare di essere dentro la bocca di un vulcano tramutatosi in lago salato.
Chiusi gli occhi, mentre perfino le onde - che già a malapena si muovevano - venivano risucchiate da quelle acque color mostarda guasta. Le labbra ripresero a sanguinare; ero sempre vivo e il dolore lo dimostrava.
Passarono ore. O forse pochi minuti. Uno schizzo d'acqua tiepida mi colpì la guancia sinistra. Lentamente aprii gli occhi, mentre un secondo schizzo d'acqua mi fece friggere le cornee.
C'era qualcuno in acqua.
La cispa aveva di nuovo circondato le mie palpebre, come una pianta carnivora, un muschio in cerca di divorare terreno e rocce. Me la grattai via.
E li vidi.
Circa due dozzine di bambini si facevano il bagno in quel mare che avrebbe disgustato perfino uno zombie.
Ridevano. Gridavano e si schizzavano a vicenda. Era certo che mi avessero visto - ero proprio in mezzo a loro - ma che suscitavo in loro lo stesso interesse di un pezzo d'alga strappato dal fondale. Nemmeno mi chiesi il motivo della loro indifferenza. Non potevo sperare nell'aiuto né nella misericordia di nessuno.
Pareva che quei bimbi non avessero notato quei fusti pieni di rifiuti tossici che rigurgitavano il loro contenuto nel mare, come fosse un enorme water nel quale fosse sufficiente tirare lo sciacquone. Vidi due o tre bambini che inghiottivano qualche sorso d'acqua.
Sentii un tremendo bruciore allo stomaco, e vomitai succhi gastrici biancastri e densi.
Solo in quell'istante mi ricordai del sogno fatto durante la notte precedente: Angelo Branduardi che - sbalzato di sella da un cavallo nero imbizzarrito - cadeva in acqua e annegava in una pozza d'acqua molto simile a quella dove vagava la mia zattera. Rivedevo negli occhi i suoi capelli grigi zuppi d'acqua e ormai sommersi per sempre. Il suo viso si era orrendamente gonfiato. Le onde gli avevano strappato la sua camicia e la sua giacca, entrambe in stile coreano.
Ma, da quanto ne sapevo, il mio cantautore vivente preferito era ancora vivo.
Le bambine superavano numericamente i maschietti. Ed erano sempre queste prime che facevano molto più chiasso dei secondi. Gli schizzi crescevano d'intensità, e qualcuno dei bambini più grandi teneva la testa di qualche compagno di giochi sott'acqua per qualche secondo. Qua e là vi era qualche pallone che galleggiava indisturbato; nessun bambino ci giocava.
Continuavo a vomitare; non sapevo se per la nausea o per il suono di quelle risate gioiose. Capii il motivo per il quale nemmeno mi guardavano: non ero uno di loro e non mi volevano certo come compagno di giochi.
I miei succhi gastrici venivano inghiottiti inesorabilmente da quelle acque gialle e dense.
Volli allontanarmi. Usai le mie braccia come remi, come tante volte avevo fatto in quei giorni, e tuffai le mie dita in acqua. Era come se avessi penetrato una densa cortina d'olio o grasso fuso. Dentro il mio stomaco ormai non avevo più nulla da vomitare. Continuai a remare.
Ma come sarei uscito da quella baia?
La corrente parve leggermi nel pensiero.
Le rocce si separavano improvvisamente, lasciando intravedere un varco di un paio di metri che collegava la baia con l'oceano.
Finalmente acqua pulita, prima di poterla vedere ne sentii l'odore. E avevo ragione.
Superai quell'apertura larga solo un paio di metri, invisibile solo pochi metri più indietro. Avevo il terrore che quelle rocce si potessero rinchiudere improvvisamente, schiacciandomi in mezzo a loro. Devo aver letto troppi libri di epica, ed ero certo che la mia ragione mi stesse abbandonando.
Mi gettai nell'oceano. Qua perfino le onde erano più libere, i pesci vivi, le piante ancora ancorate al fondale, pronte ad avvinghiare incauti pesci.
Con orrore mi accorsi di non essere solo.
Ero circondato dai mostri del mare, i residui dei dinosauri che nemmeno la morte e l'estinzione erano riuscite a sterminare e ad avere.
Intorno a me nuotavano decine di squali.
Sapevo che mi osservavano, molti di loro emergevano dalle acque agitate e mi guardavano con i loro occhi immobili, occhi che parevano appartenere a uomini morti.
Sapevo che cosa facevano e che cosa volevano.
Avevano sentito i bambini giocare, le loro urla, le loro risate, avevano già iniziato ad assaporare il loro sudore che si mescolava alle acque. Ero certo che erano quasi impazziti dalla fame. L'unica cosa che li bloccava era l'effetto ottico che aveva ingannato perfino me.
Non sapevano del varco.
Fino ad ora.
Ora, lasciando la baia, avevo mostrato loro la via. Passarono al mio fianco senza tentare niente contro di me; eppure sarebbe bastato qualche colpo di coda per fare a pezzi quella che a stento - perfino io - chiamavo imbarcazione di fortuna. Ma perché avrebbero dovuto perdere tempo con me? La carne verso la quale si dirigevano era molto più tenera, più numerosa e più facile.
Ero disarmato, ma neppure con una fiocina avrei potuto fermarli. Avevo solo la mia voce, e la usai. Da giorni non pronunciavo parole.
"Scappate!" urlai. La mia voce era tremendamente gutturale.
Sapevo che non avrebbero potuto sentirmi. Anch'io potevo udirmi a stento. Il vento sferzava ogni cosa e disperse la mia parola per l'etere.
Era troppo tardi. Era troppo tardi per tentare qualunque cosa. Non seppi che altro fare che tentare di raggiungere i bambini. Ripresi a nuotare all'indietro.
Intanto gli squali si accalcavano nel varco, come una mandria di bestiame impazzita inseguita da un incendio. Vidi l'acqua macchiarsi di sangue; qualcuno di quei mostri - notai - aveva la pelle squarciata poiché i suoi compagni l'avevano sfracellato contro le rocce. Uno dei pescicani feriti, rivoltandosi su se stesso, divorò le sue stesse interiora.
Gli altri sparirono, inghiottiti dall'imboccatura della baia.
Li seguivo, mentre lacrime salate rigavano le mie guance.
Ripassai il varco.
I miei occhi vedevano l'orrore.
Le urla dei bambini divorati riempivano l'aria. Nessuno di loro poteva più salvarsi. Le loro membra sparivano dentro le enormi fauci di quei mostri. I loro denti - taglienti come rasoi - le recidevano come fossero fuscelli. Ritirai le mie braccia dall'acqua per non vederle divorate.
Come fiori falciati i bambini morivano, e morirono tutti.
Quelle acque viscose e gialle avevano cambiato colore; erano diventate arancioni.