I premio letterario "Una perla per l'oceano"

La bici al mare

(Dall'Ara Chiara)


Fin da bambina, uno dei miei più grandi desideri era quello di disporre di una bicicletta quando mi recavo al mare.
L’idea di pedalare a spasso fra i pini, corroborata dal dolce sentore dei tigli, con l’aria marina che mi rinfrescava, scatenava in me una sensazione di malinconia per qualcosa che potevo provare sporadicamente, quando magari un amico mi prestava la bici per qualche commissione. Assaporavo quei momenti con grande consapevolezza e felicità, sapendo che raramente si sarebbero ripetuti.
Promisi a me stessa che un giorno avrei avuto la mia bici al mare, sempre a disposizione per vagabondare senza meta, alla ricerca dell’emozione che solo quella brezza contro la faccia sa dare.

Con l’arrivo di Aurora, io e suo padre decidemmo di concederci un periodo di vacanza prolungato sulla Riviera Romagnola, per dare la possibilità alla piccola di beneficiare del clima salubre.

Ci trasferimmo a Cervia a fine luglio.
Decisi di munirmi di una bicicletta da battaglia, cosicché, anche se l’avessi distrutta valicando le sterminate radici che si incontrano nelle pinete, non mi sarei crucciata troppo. Era veramente sgraziata, di un colore indefinito tendente al grigio polvere, priva di accessori.

In quei quindici giorni permisi alla bicicletta ormai sfasciata di sperimentare una seconda esistenza: tragitti in pineta, nei delta dei fiumi, nelle cittadine della costa, nei parchi tra gli animali da corte, in spiaggia a orari indegni e nelle vie affollate della movida romagnola.
Potesse parlare! Racconto io per lei, ora che è autunno e sono pervasa dalla nostalgia di quelle giornate cariche di frivolezza e curiosità di scoprire il territorio a cui appartengo.

Fra gli innumerevoli giri, ricordo piacevolmente una mattina di metà agosto, quando mi svegliai presto per andare a contemplare l’alba in spiaggia. E per l’occasione, incontrare un’amica.
Insieme alla mia famiglia eravamo alloggiati nella zona termale, immersi nel cuore della vegetazione costiera.
Inforcai la bici che non erano nemmeno le sei e di buona lena la trascinai su per il viadotto pedonale che scavalca la ferrovia. Oltre quel varco si apriva a dismisura il bosco taciturno, permeato con gli odori e i rumori degli albori della giornata. Era una mattina umida e abbastanza fresca. La notte aveva piovuto. Pedalando con attenzione nel sentiero invaso dalle pozzanghere, notavo il silenzio sfumare nei primi chiacchiericci dei passerotti che si abbeveravano negli specchi d’acqua. Il vento pungente non mi faceva rabbrividire, anzi, provocava un vigoroso risveglio, invadendomi con una sferzata di energia. In quei pochi minuti di percorso che mi separavano da Milano Marittima, riscoprii con stupore l’incanto della perfetta solitudine. Quando ti percepisci connesso alle forze ancestrali della natura: l’acqua, gli alberi, il sole che ancora rintanato sotto l’orizzonte riesce ugualmente a illuminare di magici colori le poche nuvole sparse nel cielo opalescente. Lo fotografai quel cielo, ma non era necessario. Lo porto indelebile qui con me, mi basta socchiudere le palpebre per osservarlo riprodotto nella mia immaginazione.
Finita la pineta, entravo in un altro mondo. La lunga strada diritta che conduceva al mare era semideserta. Qua e là si aggiravano coppie e gruppi di giovani che, al contrario di me, erano alla fine della loro giornata. Assonnati, forse un po’ sbronzi, percorrevano in senso inverso il viale alberato, in direzione dell’ampio parcheggio. Più mi avvicinavo alla rotonda Primo Maggio, più intravedevo i segni delle nottate brave di quella schiera di ragazzi spensierati e incoscienti, gonfi della sconsideratezza tipica della loro generazione: ancora avviluppati nel limbo che separa l’ingenuità adolescenziale dai fardelli dell’età matura. Sebbene anch’io avessi sperimentato tanti anni addietro quello stile di vita, ora non lo invidiavo. Riflettevo senza giudizi su quello che è lo scorrere del tempo: un cumulo di esperienze che servono unicamente a farci diventare la persona che siamo in questo momento, in un continuo divenire parte sempre più in armonia con le leggi naturali che dominano l’universo.
Le mie elucubrazioni mentali forse stavano toccando un punto di delirio dal quale dovevo distaccarmi.
Così, mi concentrai su cose terrene, esaminando proprio sul marciapiede i residui abbandonati nella notte dei divertimenti: bicchieri, festoni, immondizia di ogni tipo. Con i bicchieri ci si sarebbe potuto fare un servizio da dodici. Ne raccattai alcuni che avrei usato per il caffè, anche se intuivo che lì si era bevuto ben altra bibita. E sorpresa, spiaccicata all’asfalto bagnato, rinvenni una banconota da 20 euro. Fantasticai sul fatto che l’avesse persa qualche intronato ottenebrato dai fumi dell’alcool. Meglio così, io l’avrei usata per una salutare colazione insieme alla mia amica, presso uno dei bar più raffinati di Milano Marittima. Al bando la crisi! I soldi trovati andavano gioiti subito, sperperandoli con disinvoltura, appunto perché non erano frutto del tempo e del lavoro.
Sembrava essere trascorsa un’eternità da quando ero partita, invece erano appena scoccate le sei, mancavano pochi minuti al sorgere del sole. Raggiunsi la spiaggia, nello stabilimento dove avrei incontrato Fulvia, accompagnata dalle sue adorate cagnoline.
Mi adagiai in riva, seduta su un moscone, con lo sguardo fisso alla linea di demarcazione fra cielo e mare.
Ammirai la miriade di sfumature che precedono il raggio abbagliante che annuncia l’inizio del giorno.

L’Aurora. Mia figlia.
Tanto desiderata, giunta con immani sofferenze, con quel nome scambiato alla nascita e affidato alla gemella sfuggita.
Lucia. Luce.
E io, Chiara.
Nella luminosità stava scritto il nostro destino.

Dedicai quello scintillio a Lucia, raffigurandola cullata delicatamente dalle stelle.
Le stelle stesse erravano all’infinito, nella volta celeste, adagiate su un carro trainato da una bicicletta.

Sentivo l’amarezza placarsi. Un ammasso di ferraglia arrugginita mi riconduceva in equilibrio, trasportandomi con leggerezza fuori dall’oscurità.