Mio Padre

(Sartarelli Vittorio)


Forse potrà sembrare presuntuoso che un figlio descriva il profilo psicologico e fisico del proprio padre, tuttavia, penso che in fondo nessuno sia più adatto del proprio figlio a descrivere e commentare una figura così ieratica e autorevole come quella del “padre” anche se, in questo egli potrà essere, per affetto, probabilmente un po’ indulgente.
Personalmente, ho sempre avuto la convinzione di considerare anche concettualmente, il padre, quale questo è descritto nella Bibbia: Colui che ha generato la vita e che quindi rappresenta l’inizio di tutte le cose, in lui sono racchiuse tutte le generazioni passate ed esso testimonia la “summa” di tutte le esperienze e di tutte le qualità materiali e spirituali degli antenati.
Di là del fatto genitoriale in sé, che pure è essenziale ed importantissimo, il padre è anche maestro ed esempio di vita, precettore, guida morale e educativa ed è in virtù di queste funzioni che gli si devono rispetto ed ubbidienza incondizionati.
Abramo, “il padre umano” per antonomasia, è additato come esempio di amore ed obbedienza nei confronti del suo “Padre Celeste” e questo parallelismo tra le due figure rende ancora più divina ancorché umana l’immagine di ogni padre.
Il mio genitore era, essenzialmente, una “bella persona”, non lo dico per piaggeria o perché era mio padre, al di là del suo aspetto fisico che pure era gradevole, c’era in lui un concentrato di qualità.
morali, intellettive e di costume, che gli conferivano autorevolezza, simpatia ed ammirazione, cose queste che gli riconoscevano le persone con le quali entrava in relazione e che ne ammiravano la forte personalità ed un carisma indiscutibile.
Di statura media, aveva una corporatura atletica molto robusta, fin da piccolo, appassionato di sport e di cultura fisica, aveva forgiato il suo corpo esercitandolo in molte discipline sportive che gli avevano accreditato un fisico d’atleta cui si accompagnava una forza fisica non comune.
Capelli neri, sopracciglia folte e occhi grigio verde di solito sereni e inclini al sorriso ma, quando s’infuriava, diventavano freddi e taglienti come fossero di ghiaccio, incutevano timore e facevano temere il peggio.
Ricordo che, da piccolo, non mi rimproverò mai con le parole, né mi diede mai uno schiaffo ma, quando facevo qualcosa che non andava bene, bastava che mi desse un’occhiata severa ed io capivo di avere sbagliato. Tra noi due c’era sempre stato un rapporto speciale nel quale si mescolavano un grande affetto, l’ammirazione, il rispetto e l’ubbidienza. Seguivo i suoi insegnamenti che, più di parole erano fatti di esempi e comportamenti, in modo assoluto, in lui riponevo la massima fiducia e dalla sua figura mi sentivo protetto.
All’educazione severa e rigida di una volta, che aveva ricevuto in famiglia, non faceva riscontro, purtroppo, un’adeguata istruzione. Era stato un vero peccato che avesse interrotto gli studi, subito dopo la scuola media, la sua intelligenza vivida ed acuta, sorretta da un estro ed un’eccezionale fantasia inventiva, se avesse continuato a studiare nel settore scientifico e tecnico, questo gli avrebbe consentito di raggiungere obiettivi importanti.
Egli, tuttavia, era affascinato ed attratto da tutto quanto si configurava nella meccanica e nella tecnica pratica inoltre, era presente in lui un amore viscerale per lo sport in generale e per le competizioni sportive alle quali aveva sempre desiderato partecipare. Amava misurarsi con quanti, come lui, si dedicavano allo sport con passione, per lui, in fondo non importava molto vincere, quanto partecipare all’agone sportivo.
Sembrava che fosse stato un discepolo di De Coubertain ma, non lo conosceva, non sapeva chi era stato pur condividendone gli elevati concetti della competizione sportiva, libera da preconcetti e leale nei comportamenti.
Così, sin da piccolo, giova ricordare che eravamo agli inizi degli anni ’20, con quel desiderio e quella passione cominciò a frequentare le officine meccaniche che esistevano a Palermo, passando via via dalle più piccole alle più grandi e specializzate. Era un’epoca pionieristica quella in cui stava vivendo, durante la quale c’era, nel settore meccanico e motoristico, un fervore d’iniziative e un crescendo d’invenzioni e di progresso tecnico, semplicemente straordinari. Erano nati, quasi contemporaneamente, i due veicoli a motore che, oltre a rivoluzionare il sistema di viaggio e di spostamento delle persone, avevano iniziato l’epoca delle competizioni motoristiche, intendo parlare della motocicletta e dell’automobile.
Fu questo un fenomeno nuovo e, tuttavia, estremamente coinvolgente per gli sportivi di tutto il mondo ma, in special modo, di Francia e d’Italia, dove maggiormente questa novità epocale ebbe modo di svilupparsi.
In quella che poi sarà definita una vera e propria rivoluzione della meccanica e dello sport e che avrà in seguito un notevole impulso industriale, mio padre crebbe e in lui aumentarono, la competenza tecnica e la passione sportiva, elementi essenziali che costituiranno il file rouge che lo accompagnerà per tutta la vita.
Grazie alla sua volontà indomita, era un tipo tosto che non si arrendeva mai, portava avanti le sue idee nelle quali credeva, fino a realizzarle. Supportato dall’intelligenza, la capacità di apprendimento e il suo smisurato amore per lo sport, mio padre diventò un magnifico esemplare di tecnico meccanico specializzato, con competenze e conoscenze nel settore motoristico e progettuale molto elevate, tali, da poter competere con ingegneri meccanici che avevano studiato per buona parte della loro vita.
Quando venne a Trapani e decise di fermarsi e crearsi una famiglia, aveva già alle spalle un’esperienza considerevole di moto e auto di tutte le marche allora conosciute che conosceva perfettamente nella loro struttura e nelle peculiarità tecniche. La sua officina meccanica era unanimemente considerata una specie di fucina alla quale potevano forgiarsi quei giovani che volevano intraprendere la professione di meccanico.
In quell’officina sono cresciuto anch’io, passavo delle ore a guardare quello che faceva mio padre, mi piaceva osservare la sua perizia e la sua precisione e vedevo, compiaciuto, come istruiva i sui allievi spiegando loro come andavano fatte alcune cose molto importanti e, quando qualcuno di loro non stava attento o non osservava gl’insegnamenti, erano guai, a volte volava anche qualche scapaccione.
Sebbene il mio genitore avesse raggiunto una preparazione tecnica di alto livello, sembrava sempre patire di quella mancanza d’istruzione e di cultura che l’avrebbero sicuramente fatto emergere anche socialmente ma, purtroppo, egli aveva preferito sin da piccolo la pratica alla teoria e quindi, ora doveva rassegnarsi alla sua condizione, tuttavia, non era contento di ciò e cercava sempre di migliorare le sue conoscenze leggendo molto, soprattutto, pubblicazioni tecniche che riguardavano il suo lavoro
Anche se sono passati molti anni, da allora, ricordo e mi sono rimasti impressi gli odori di quel luogo familiare: l’officina meccanica paterna, l’odore della benzina, delle auto, dei motori smontati, era una miscellanea di essenze che avevo imparato ad amare, anche perché, in fondo, questi odori li aveva sempre addosso mio padre, quando indossava la sua tuta da lavoro bleu che gli confezionava, con amore, mia madre.
Mi ricordo, quando, avrò avuto sette anni, mi regalò la prima bicicletta, l’avevo attesa a lungo e fui felice di potere, finalmente, cavalcarla per la prima volta. All’inizio, aveva ancora attaccate le rotelle per imparare a stare in equilibrio. Mio padre, amorevolmente, m’insegnò come fare a meno di esse e, ben presto, fui in grado di pedalare abbastanza disinvoltamente e speditamente. Avevo domato il mio destriero d’acciaio ed ero capace di guidarlo in tutte le direzioni.
Così com’era preciso, rigoroso e pragmatico nel suo lavoro e nei comportamenti sociali, con la stessa intensità di sentimenti era tenero e affettuoso in famiglia io, essendo il primo e il più grande di quattro fratelli, ho avuto il privilegio di godere per un periodo più lungo del suo affetto e dei suoi insegnamenti, essendo rimasto per otto anni figlio unico.
Quando diventai più grande ed in grado di capire ed apprezzare le cose che faceva e che m’insegnava, a proposito del mio futuro, mi raccomandava sempre di studiare perché non voleva che i suoi figli facessero lo stesso errore che aveva commesso lui. Nella sua ignoranza, si rendeva conto ed aveva perfettamente compreso che, nello studio, nella cultura, nel sapere e nella conoscenza risiedono il progresso sociale, il benessere e la civiltà dei popoli.
Un’altra cosa che mi colpì e che non ho mai dimenticata furono le esortazioni ad essere sempre me stesso, insistendo nelle cose in cui credevo, a non arrendermi mai, onesto con me e con gli altri, a dire sempre il vero e a rispettare le opinioni degli altri, “il resto " diceva " verrà da sé, vedrai” e questo grande insegnamento, configurandosi come una “facile” premonizione si avverò perché, coerente con gl’insegnamenti ricevuti, l’ho potuta constatare personalmente.
Quanti altri ricordi di mio padre si affollano nella mia mente, quando conduceva me e i miei fratelli al mare, durante l’estate, convinto com’era, nella sua concezione salutistica, che il mare, il sole e l’attività fisica e sportiva, costituivano la migliore medicina per far crescere, irrobustire e consolidare il fisico e la mente dei giovanissimi.
O, quando mi portava con sé, ad essere il suo primo spettatore e tifoso, per assistere a qualcuna delle sue avventure sportive nella disputa di gare automobilistiche alle quali partecipava, a volte con successo, pilotando una macchina da corsa che aveva costruito lui, da solo, nella sua officina, con la sua genialità e la sua raffinata competenza tecnica.
Come dimenticare quella che fu, forse, la più grande affermazione sportiva della sua carriera di costruttore e pilota, quando nel 1951, vinse, nella sua categoria, la XXXV Targa Florio, classificandosi anche sesto assoluto nella classifica generale, con quella sua sorprendente macchina che era mossa da un motore di appena 750 cc.
Ma quanti sacrifici, quante rinunce, quanto lavoro e abnegazione c’erano dietro questi successi sportivi e quanta fermezza e fiducia nelle proprie capacità. Quante notti insonni di preparazione e di messa a punto del motore e poi giorni e giorni di prove, di accorgimenti tecnici migliorativi per la macchina. C’erano pure le inevitabili defaillances, perché non si poteva sempre vincere o perché, a volte, cedeva un organo meccanico eppure, lui era sempre lì, mai domo, con la stessa determinazione e la stessa incrollabile fede della prima volta, con un’energia fisica e un controllo psichico incredibili.
Più avanti negli anni, quando ero diventato un uomo, un giorno tornando da un esame sostenuto all’Università andai a trovare mio padre, in officina, lo vidi seduto alla scrivania del suo piccolo studio, pensieroso e preoccupato, mi salutò appena e scambiammo solo alcune parole. Non lo avevo mai visto così, sembrava un uomo stanco e provato, invecchiato anzi tempo. Mi resi conto che c’era qualcosa che non andava, mio padre non era quello che avevo appena visto e quelle mie perplessità, purtroppo, ben presto si concretizzarono: mio padre si era ammalato.
I medici di allora esposero la loro diagnosi che, per me e la mia famiglia, suonò come una dura sentenza inattesa ed imprevedibile: il mio genitore era affetto da esaurimento nervoso, in effetti, si trattò di una grave depressione, senza ritorno, che aggredì mio padre e che, per venti lunghi anni, demolì e finì per distruggere la sua mente e il suo corpo.
Questo evento si configurò per me come una grave mutilazione, fu come se una parte del mio corpo fosse stata tagliata via di netto da un’impietosa ghigliottina. Mio padre esisteva ancora, era vicino a me ma, era diventato un’altra persona, lontana anni luce da quella che mi aveva seguito con affetto paterno e condividente durante la mia vita, il faro che costituiva per me un punto di riferimento e di orientamento costante si era spento. Avevo perduto il suo amorevole sostegno nelle decisioni da prendere e l’ausilio della sua esperienza di vita, in ultima analisi, era per me crollato un mito.
Negli ultimi giorni della sua tormentata esistenza, mi recai a trovarlo, pur provato e irriconoscibile nei confronti di quella persona che era stata molti anni prima, in un barlume di ritrovata lucidità, trovò la forza di sorridermi e, nell’abbraccio che seguì, mi disse con un filo di voce: “Quando vedo te mi sembra che sia festa!” aveva voluto dirmi quanto aveva amato me e la sua famiglia, quanto aveva lottato e quanto ancora combatteva contro la sua malattia, pur sapendo che non sarebbe riuscito, questa volta, a vincere quella che era, ormai, l’ultima sfida della sua vita.