Lì non c'era amore

(Giordanelli Gerardo)


“Ma lei, sorella, perché non ha cercato subito di andar via?”, interloquì lesta la giovane magistrato, poggiando i gomiti sui braccioli della poltroncina girevole e intrecciando le dita.
Dall’altra parte del tavolo, la suora parlò a testa china, con un filo di voce. “E come facevo? Dove andavo? Per mesi e mesi avevo assillato tutti per farmi assegnare a quella Comunità. Il Padre sembrava così dinamico e generoso!”. A riparlarne, le tremava la voce, le mancava il respiro. “Così tanti progetti, tante iniziative, la casa d’accoglienza, la mensa dei poveri, le missioni in Africa, tanta gente coinvolta a fare del bene! Credevo di poter essere davvero utile ai bisognosi, nel nome di Gesù”, aggiunse la suora, scuotendo sconsolata la testa. Provava soggezione di fronte a quella giovane donna sicura di sé o al cospetto dell’anziano ispettore Foglia che doveva averne viste tante e ora camminava impaziente per la stanza.
“Ma lei ci ha detto che non era segregata. Poteva rivolgersi subito a noi o alla gerarchia, come poi ha fatto!”, riprese la giudice.
“Rimasi a lungo incredula, stordita. Cosa raccontavo? Chi mi avrebbe creduto? Tutte quelle opere di bene, la popolarità … Il Padre gode di un prestigio enorme! E poi … per noi, per me … non è agevole parlare di queste cose!”.
“Ci racconti com’è cominciato”, incalzò la giudice. Era la prima indagine che gestiva da sola. Si sentiva condizionata dalla presenza dell’ispettore Foglia, collega di lunga data del babbo. Alla suora avrebbe voluto infondere fiducia, calma, sicurezza. Se già una donna parlerebbe con pudore e fatica di uno stupro, per lei addirittura doveva essere come strapparsi le viscere. Povera suora, in quella situazione, poi! Temeva, però, che quello sarebbe apparso all’ispettore il comportamento tipico non di un magistrato ma di una donna; o, peggio, di un magistrato inesperto. Assunse, così, un’aria da inquirente navigato e cinico, interrompendo la parte attrice, chiedendole di dettagliare il racconto, rivolgendole domande secche e precise, per dimostrare a Foglia che sapeva come il suo compito consistesse nel circostanziare la denuncia, nell’accertare se l’accusa fosse fondata e corroborata da prove e indizi. I suoi assalti, però, non riuscivano a forzare l’umile ritrosia della suora, e si restava ancora all’inizio della deposizione.
La suora appoggiò la fronte sui pugni chiusi, con i gomiti puntati sul tavolo; chiuse gli occhi e riprese a piangere in silenzio. L’ispettore Foglia era ormai indispettito. “Sta giudicicchia rischia di rovinare tutto!”, pensò guardandola torvo. “Ci fosse al posto mio suo padre, la metterebbe in riga in un niente, senza riguardi. Cercherò di fare del mio meglio, il collega approverebbe”. La suora piangeva grosse lacrime, scuotendo le spalle, ma senza singhiozzare. Stringeva forte i pugni, la pelle sulle nocche era tesa. Una ciocca fuori posto di capelli neri le lambiva un orecchio; il volto, rigato di lacrime, era pallido, solo un po’ arrossato intorno al naso e agli occhi. “Le ci vorrebbe un fazzoletto”, pensò l’ispettore, “non di carta, però, che si spappolano e lasciano peletti dappertutto”. Temeva che il suo potesse aver raccolto quei piccoli grumi di tessuto, di fili e di sporco che, di tanto in tanto, si formano agli angoli delle tasche. Riempì un bicchiere d’acqua e lo posò sul tavolo accanto alla suora; con gesto rapido dell’altra mano, estrasse il fazzoletto e lo scosse. “Prenda, sorella”, disse piano. Avvicinò una sedia alla suora e si sedette, augurandosi che la giudicessa avesse capito.
Il fazzoletto era bordato di verde e azzurro, con le iniziali ricamate a mano. Era candido e odorava di bucato, di bucato fatto in casa. La suora ritornò, per un attimo, giovinetta, intenta a preparare con la mamma il bucato nella tinozza, sull’aia del casolare. Ubbidiente e assennata, teneva in ordine la casa, dava il foraggio agli animali, aiutava i piccoli a vestirsi o a soffiarsi il naso. La voce calda e bassa dell’ispettore le ricordava quella del babbo, quando la ripagava con affetto e tenerezze per aver assistito i fratelli negli studi o prestato soccorso e conforto a miseri e infelici. Si fece forza.
Appena la suora riprese a parlare, Foglia fece segno all’appuntato di sedersi alla tastiera. “Ero alla Comunità da poche settimane. Il Padre stava lavorando ai preparativi per la missione, che sarebbe partita da lì a due giorni. Dovevo andarci anch’io. Ero elettrizzata e felice: finalmente andavo in Africa! Gli portai il pranzo di sopra, nella sua stanza, e posai il vassoio sul tavolo. Non me ne andai subito; rimasi lì, accanto a lui, invitandolo a parlarmi ancora della nostra missione. Ma lui … lui, con un balzo chiuse la porta, mi mise una mano sulla bocca e mi spinse sul tavolo …”. La suora ricominciò a piangere, singhiozzando forte; scuoteva la testa e batteva i pugni sulle ginocchia. “Era … era la fine, la fine di tutto …”, riuscì a dire fra i singhiozzi.
Ebbe tempo per calmarsi. Soffiò un lungo sospiro. “Restai tutto il giorno nella mia cella, accasciata sul letto, a piangere”. Foglia, senza voltarsi, con la mano aperta fece segno alla giudice di lasciarla parlare. “Per le botte, sentivo dolore dappertutto. Ero … ero stupita, frastornata, mi sembrava di aver sognato, di aver avuto un incubo. Non ricordavo niente, non riuscivo a comprendere cosa fosse successo, come poteva essere successo! Poi, verso sera, ritornò, con tre lavoranti. Non so spiegarmi come abbiano fatto a entrare, sono sicura di aver chiuso la porta a chiave. Non ebbi forza di gridare, di muovermi, di lottare. Ricordo solo il vociare, le loro mani dappertutto, mi stracciavano la tonaca, ansimavano …”.
L’ispettore Foglia si era accorto che la suora, un paio di volte, aveva sollevato il capo, guardando con insistenza verso la vetrata. “Beva un sorso d’acqua, sorella!”. Con la testa, indicò la finestra aperta all’appuntato e, portando l’indice sotto l’occhio, gli fece segno di stare all’erta. “Rimasi sveglia tutta la notte, avevo paura a addormentarmi. Mi usciva sangue dal naso. Mi lavai, indossai un’altra veste e pregai la Madonna di darmi forza e consiglio. Sedetti al tavolo, vicino all’inginocchiatoio. Mi sentivo incapace di agire; però, riuscii a pensare, a ricordare. Ormai ero disillusa. Quei quattro, insieme alla tonaca, avevano lacerato il mio entusiasmo, l’incantamento che, come un velo, avevo tenuto fino ad allora davanti agli occhi, impedendomi di cogliere, di capire tanti fatti strani che accadevano in Comunità. Fra i frequentatori, infatti, avevo notato delle persone infide, misteriose, che si intrattenevano con ospiti e lavoranti, e alcuni, con una certa frequenza, avevano accesso anche alle stanze, finanche in assenza del Padre. Ricevevamo, inoltre, tanta beneficenza, tanta misericordia, molto più di quanto potessimo consumare. Così, rivendevano la roba in eccesso; quanta roba! Anche auto e furgoni, sapete? Il ricavato lo impiegavano nelle opere di bene, almeno così mi disse il Padre l’indomani, quando mi parlò. Ma prima … prima … mi vendette, capite? Mi vendette! Portò uno, lo conoscevo di nome, un suo sostenitore, un ricco che faceva beneficenza … sì, beneficenza! Aprì di nuovo la porta della mia cella e lo fece entrare. Richiuse in fretta e, tirandomi per le braccia, mi trascinò sul letto. Quando poi restammo soli, mi disse che ero stata brava, che avevo procurato alla Comunità e ai bisognosi ben centomila euro, e che ora avrebbe potuto costruire un sanatorio in Africa. Che vergogna, Dio mio, che aberrazione!”.
Con gesti lenti e tremanti, la suora fece il segno della croce. Foglia e la giudice si guardarono di sottecchi. La suora bevve un altro sorso d’acqua. Sembrava essersi tolto un peso. “Mi dissi che dovevo fare qualcosa. Era un mostro! Com’era possibile pensare di fare del bene e intanto profanare con selvaggia violenza, con un comportamento così abietto, la persona, la dignità, l’amore per il prossimo, il … il voto di castità fatto a Nostro Signore Gesù Cristo? Mi venne anche un sospetto: e se non fossi la prima? Se lui usasse quelle altre povere anime, quelle giovani sbandate o immigrate, martoriate dalla sventura e dal bisogno, quelle donne, per … sì, insomma, se lui avesse pensato che fare del bene si riducesse a dare loro un tetto e un pasto, come le bestie, senza preoccuparsi del fatto che, in cambio, le stava ributtando nell’inferno da cui cercavano di uscire? Si era fatta ora di pranzo. Scesi al refettorio. Nel corridoio incontrai un’altra suora. È una sorella energica, attiva; non ci conosciamo molto, ma allora, guardandola negli occhi, mi apparve come spenta, arida, scostante. È più giovane di me e si trova in Comunità da molto più tempo; possibile che non si sia mai accorta … o che non sia già stata …? Entrai in cucina. Vi lavorano soprattutto donne: giovani, piacenti. Si muovevano con sicurezza, ma in silenzio, senza scambiare una parola fra loro o con gli ospiti. Cos’era, paura, vergogna, bisogno? Guardai verso la sala: gli ospiti, tutti, mangiavano in fretta e in silenzio, con la testa china sul piatto. Che vita si viveva realmente nella Comunità? Con chi potevo parlare? Non dovevo restare un minuto di più. Lì non c’era amore! Sono scappata a casa, dai miei. Mi sono consigliata con loro e poi sono andata dalla Madre Superiora”.
L’ispettore Foglia s’alzò e si diresse verso il computer. L’appuntato lo guardò confuso, sollevando appena le spalle. Non aveva verbalizzato nulla. “Non importa " si disse l’ispettore " la suora ormai è pronta per una denuncia precisa e dettagliata. L’indagine può iniziare!”.