I premio letterario "Una perla per l'oceano"

Nei suoi occhi

(Campo Massimiliano)


«Nonno, entriamo nel Duomo? Ho caldo! Ti prego, ti prego, ti prego…»
«Uhm… non so, Paolo… è che la gamba mi fa un male cane stamattina. Torniamo a casa, dai. Facciamo un'altra volta.»
Piccola bugia, non mi fa male niente; ma proprio non riesco a rimetter piede lì dentro. Sono quasi settant'anni che non lo faccio. Non che abbia perso la fede, al contrario; semplicemente, non ho trovato la forza di tornare qui, in questa chiesa, dove in un attimo morirono cinquantacinque persone, molte delle quali per me rappresentavano la vita stessa: le mamme dei miei compagni di scuola, le vecchie amiche della nonna, gli amici di papà giù al bar, ma soprattutto i bambini più grandi con cui giocavo a pallone in piazza. Volti sorridenti, felici, che non posso scordare.
Ma Paolo, che ha pressappoco l'età che avevo io all'epoca, insiste e non so dirgli di no.
Entriamo e l'ombra fresca delle navate, l'odore pungente delle panche di legno, il leggero profumo di incenso e il pulviscolo che brilla nel riquadro di luce del rosone aleggiano su di noi come l'alito di Dio: quella strana, piacevole sensazione che si prova entrando in una qualunque chiesa del mondo, soprattutto quando fa così caldo o si ha un peso sulla coscienza da farsi perdonare.
All'improvviso, però, inizio a tremare e un nodo mi stringe la gola come un serpente. Paolo non se ne accorge nemmeno, preso com'è dalla curiosità di esplorare un luogo così insolito per lui. Allora, mi lascia la mano e si dirige correndo verso l'altare. Non lo fermo. Come apro bocca la commozione mi ruba le parole. E gli occhi mi salgono in su. Non posso farci niente. Solo dopo un minuto, a fatica riesco ad abbassare lo sguardo, che si posa automaticamente sull'ultima fila di panche a sinistra. E in un attimo, anche se non voglio, ritorno a quella maledetta mattina del 22 luglio del 1944.
Mio padre faceva il fabbro e mia madre era una casalinga, come tutte le mamme del tempo. I miei non erano originari di San Miniato. Si erano rifugiati lì, come tanti altri, per sfuggire alla bombe su Livorno. Alloggiavamo in una cascina vicino all'Hotel Miravalle, con mia nonna, che invece era una del posto. La mattina del 21 luglio si sparse la voce che le case del comune erano state minate dai tedeschi. La nonna disse di nasconderci nel Duomo, dove già dalla sera prima si era rifugiata gran parte del paese. Essendoci ormai poco spazio, entrammo e ci sistemammo in un angoletto sulla sinistra, stretti gli uni agli altri. Molti pregavano, altri dormivano.
Il giorno dopo, il 22 luglio, fu issata la bandiera bianca e gialla del Vaticano, che avrebbe dovuto proteggerci. Ma non fu così. Due esplosioni vicino alla chiesa gettarono tutti nel panico. Molti disgraziatamente si accalcarono verso l'altare per invocare Dio, e furono i primi a morire. La granata esplose e mio padre fece appena in tempo a fare il cenno di ripararci sotto una panca. Il boato - che a volte mi sembra ancora di sentire - ci colpì con una violenza inaudita. Il fumo, i detriti che cadevano, la gente che urlava ci annebbiò la mente. Terrorizzati, senza renderci conto di quello che stavamo facendo, iniziammo a correre sui corpi senza vita, scavalcando i feriti, le loro mani tese. Non posso dimenticare i loro occhi sbarrati.
Guadagnammo l'uscita, ma alcuni soldati tedeschi ci ordinarono inspiegabilmente di rientrare. Per fortuna, la gente sfondò le due porte laterali, e i soldati, intimoriti dalla folla e dalla pioggia di granate, dovettero desistere. I superstiti si sparpagliarono per il paese, molti si diressero verso il convento di San Francesco, altri sotto l'arco della strada del Vescovado. Mio padre, strattonandomi per un braccio e tirando con l'altro la mamma e la nonna, ci riportò a casa. Dopo pochi giorni arrivarono gli americani.
E da allora non sono più entrato nel Duomo di San Miniato.
Paolo ha finito il giro di ispezione. Torna da me, sembra soddisfatto. Mi prende per mano e apre la bocca per strillarmi qualcosa; ma subito ci ripensa, abbassa lo sguardo, e mi sussurra di uscire. Forse ha colto i miei pensieri, oppure finalmente si è reso conto di essere in un luogo speciale, che né io né lui possiamo turbare a lungo con la nostra presenza.
Mi chiedo quali siano state le nostre risorse, il punto da cui siamo riusciti a ripartire, dopo un fatto così brutto; per non dimenticare chi eravamo, per non lasciare che il tempo spazzasse via i nostri sogni, le nostre speranze, come una bomba esplosa in una chiesa. Dopo tutto questo tempo, dopo una vita di domande, non ho ancora trovato una risposta. La saggezza della vecchiaia, su cui tutti un giorno vorremmo fare affidamento, non mi ha aiutato; forse non ci speravo neppure.
Guardo questo bambino che mi stringe la mano, i suoi grandi occhi nocciola che brillano come castagne sulla brace; e mi rivedo giocare a pallone in piazza, in quella torrida estate del '44. Felice. Come lui, come loro, che non ci sono più.
Non conosco le risorse per ricominciare, proprio non saprei indicarle a nessuno. Ma so dove sono.