il ragazzo del 98

(Ros Nicolina)


La grande famiglia patriarcale che zio Gigi aveva guidato per quarant’anni portandola con fermezza e pragmatismo alla prosperità, all’inizio degli anni sessanta si era fatalmente smembrata in quattro. Lui che da sempre era stato il condottiero indiscusso e da tutti ammirato per la sua autorevolezza e citato ad esempio per correttezza, si era trovato improvvisamente a vivere da solo nella grande casa che, fino ad allora lo aveva seguito in ossequioso silenzio.
Alle pareti della grande sala che ci aveva visti per decenni raccolti a pranzare, erano ancora in bella vista gli attestati che riconoscevano i risultati del suo lavoro; i tanti premi per aver contribuito in modo determinante alla selezione della pezzata rossa friulana e i risultati ottenuti nella gestione della latteria che aveva gestito per quasi mezzo secolo. La latteria era la sua seconda famiglia a cui aveva dedicato tutta la sua vita.
Era stata la contessa Astrid a proporlo apprendista nella latteria di sua proprietà nel comune di Codroipo e lui con entusiasmo si era messo al servizio del maestro casaro che come un libro aperto, non lesinò i segreti del mestiere. In breve Gigi ottenne stupita stima per l’immediato apprendere e per la tenacia con cui seguiva ogni insegnamento.
Poi, il ragazzo del ’98, non ancora diciottenne imbracciato un fucile, fu mandato in trincea sul Carso, a proteggere i confini della Patria, proprio contro chi di più ammirava al mondo!
Ricordo che lo zio non parlava mai con nessuno della sua esperienza in guerra eccetto che con il prete del paese suo coetaneo che era stato arruolato come aiutante del cappellano militare. Il prete veniva spesso a farci visita e s’intratteneva sempre a conversare con lo zio ed io, nascosto tra le colonne di sostegno della cappa del focolare della cucina, dove loro due si appartavano per parlare in libertà, ascoltavo incuriosito e ammirato i loro racconti sempre riferiti ad episodi della guerra che li aveva visti entrambe coinvolti. Erano una novità quei racconti, che alimentavano la mia fantasia ed io con cura mettevo assieme quei frammenti, costruendomi la storia dello zio, tanto che potevo raccontarla come se fossi stato io stesso l’attore dei quei gesti.
«Era il mese di giugno del ’16, fui chiamato alle armi e mandato al fronte, avevo diciotto anni. Dopo un mese d’addestramento in Trentino, fui assegnato al corpo del genio con il compito di precedere la fanteria, prima degli assalti, ad aprire loro la strada davanti alle postazioni nemiche, accampate sul monte Nero. In un continuo lasciare e riprendere postazioni, se ne andarono due mesi, in assalti e quanti amici restarono sul terreno! Il comandante, quando era il momento di uscire, ci forniva gavettini colmi di grappa per infonderci coraggio: io non ho mai bevuto perché volevo essere cosciente, la testa limpida e presente ad ogni evenienza. Scavalcavamo corpi impigliati nel filo spinato e lì anche da giorni, non era facile recuperarli: la postazione era scoperta e il nemico più in alto ci teneva in pugno. Conquistammo il monte Santo, a suon di morti e sacrifici immani. Lo difendemmo fino all’ottobre del ’17, quando, all’ordine di ripiegare al Piave, lo abbandonammo. Quel ripiegamento si tramutò in una disordinata e drammatica ritirata.
Seguirono mesi di permanenza sul fiume ove si verificarono diserzioni di soldati che, sentendosi abbandonati, cercarono di scappare a casa. Militari in pattuglia uccisero i loro ufficiali e si consegnarono agli austriaci; dalle linee italiane non potevano farlo. Per arginare tali fughe infatti, erano stati istituiti sbarramenti dietro al fronte e plotoni d’esecuzione per i disertori. Si verificò un massacro tra fratelli!
I pidocchi ci torturavano e turni continui ci impegnavano giorno e notte a scavare trincee e stendere reticolati sotto il tiro delle mitragliatrici nemiche. Le pezze fasciavano i nostri piedi insanguinati; l’equipaggiamento diventato quasi inesistente.
Quando rimaneva ucciso qualche compagno verificavamo come stava a scarpe e abiti e se era il caso facevamo cambio: sciacalli miserabili e disperati. Lo stesso succedeva con gli austriaci che trovavamo morti nelle perlustrazioni notturne, loro erano meglio equipaggiati di noi. Il freddo era pungente, ma la peggior situazione fu sul Piave: settimane intere immobilizzati sotto la pioggia e nel fango!».
Nascosto dietro la solita colonna, udì lo zio confessare al prete, che lui in guerra, aveva scelto di andare volontario a tagliare il filo spinato davanti alle trincee, per non dover... sparare. Era un’incombenza rischiosissima quella, e portava i soldati ad avanzare privi di armi con in mano solo le cesoie. Qualora scoperti era la fine, ma una volta aperta la via, se Dio voleva che facessero ritorno in trincea, erano dispensati dall’andare all’attacco. In tutto il tempo passato in quegli anfratti, dal suo moschetto mai uscì un colpo. Neppure, al ritorno mai espose la sua croce di guerra. Immagino che se da una parte essa rappresentava l’onore per un comportamento integerrimo, dall’altra la considerasse quasi un affronto verso un popolo altamente apprezzato, che solo per dovere credo, aveva combattuto da nemico.
A volte li aveva sentiti confrontarsi sui propri convincimenti che per altro, in gran parte concordavano.
Il suo raccontare stringato ed essenziale, privo di apparente emozione ed enfasi alcuna, pareva la cronaca di un inviato speciale sul luogo di un conflitto. Era come se non l’avesse vissuta quell’esperienza sulla sua pelle. Non mi ero mai sentito perciò veramente coinvolto, anche se rabbrividivo all’immaginare corpi abbandonati sui fili spinati.
Al fortunato ritorno si era presentata la svolta che avrebbe dato vita alla sua carriera: il casaro, troppo anziano, non era più in grado di portare avanti il lavoro e chiese requie alla contessa Astrid tornata nella sua tenuta subito finita la guerra. Lei incaricò il figlio Josef, di prendere contatto con Gigi. Cosa che il conte fece subito e alle sue scarse parole italiane si contrapposero le fluide tedesche conosciute da Gigi. S’intesero. Breve rispolverata con il vecchio casaro e fu in grado di andare avanti da solo. Il conte Josef gli diede le chiavi, raccomandandogli di conferire per qualsiasi cosa con la contessa sua madre o con lui e d’inverno, in loro assenza, con il fattore.
L’attività nelle sue mani, prese da subito un impulso straordinario per tutto il Friuli. Serietà nella conduzione e nella contabilità; ordine, pulizia, disciplina; il tutto incernierato all’attitudine di volersi creare uno spazio proprio nel mondo, non potevano che produrre risultati. La rigidità del suo metodo all’inizio fu considerata eccessiva. La contessa invece gli espresse personalmente il suo pieno apprezzamento.
Era un metodo che nulla scontava a nessuno: le regole valevano per tutti uguale e, prima di tutto lui le faceva valere per sé stesso. Lui che portava il grembiule bianco immacolato e spandeva intorno a sé profumo di lisciva in ogni momento della giornata, non ci pensava due volte a respingere il latte conferito senza la richiesta pulizia. Fu soprattutto questo a fare la differenza: i prodotti della latteria da tutti apprezzati per l’eccellente qualità e molto richiesti, tanto che il formaggio non veniva reclamizzato con il nome del paese o della contessa ma come il formaggio di “Gigi”.
Quando ormai anziano, espresse il desiderio di rivedere il “suo” monte Santo, che era in territorio Iugoslavo; questo non lo scoraggiò, si era acceso in lui un desiderio imperioso di riandare nei posti che lo avevano visto ragazzo arrivare con il fucile in mano, fece il passaporto e appena fu pronto, il giorno stabilito, partimmo al sorgere del sole.
Stette in silenzio tutto il tragitto. Quando arrivarono, scese rapido dall’auto e subito buttò lo sguardo a perlustrare ogni direzioni. Sconcertato, cominciò a ripetere che tutto era cambiato!
“Presume forse che la natura avesse dovuto chiedere a lui il permesso per riconquistare i suoi spazi?”, pensai. Era naturale che fosse cambiato, erano passati più di cinquant’anni.
Io che da bambino lo avevo immaginato grande combattente, lottatore tenace, freddo e determinato con la proverbiale serietà che lo caratterizzava, ora lo sentivo parlare tra sé rivolgendosi domande che a me che, ero rimasto discretamente in disparte affinché egli sciogliesse le sue emozioni senza interferenze, intuivo non trovavano risposte.
Gigi con la giacca piegata sul braccio e il cappello in mano, nervosamente con la mano libera lisciava la spazzola dei capelli, cercando punti di riferimento impressi nella memoria e saltava, incredibile per la sua età, tra le pietre come un capriolo.
Poi alzò la mano a indicare punti solo a lui chiari spostando arbusti con fare circospetto; si mise carponi a cercar trincee orami erbate. Annusò l’aria... segnando col dito, ad uno ad uno i paesini che si stendevano giù a valle e li chiamava per nome e ancora le case dove era andato a chiedere acqua per dissetarsi e dove aveva riposato, dopo settimane di prima linea.
«Dunque noi eravamo accampati qui e là c’erano i tedeschi…», sussurrava e spostava arbusti circospetto, cercava carponi trincee scomparse, annusava l’aria e poi sorrideva, forse i fantasmi che gli avevano reso chissà quante notti insonni a diciotto anni ora riprendevano forma dentro i suoi occhi e il vento che s’insinuava tra gli alberi e scomponeva le foglie, forse gli riportava grida di dolore e ultime parole di amici e compagni che avevano lasciato lì la loro vita.
Forse i fantasmi che gli avevano reso chissà quante notti insonni a diciotto anni, si ripresentavano e il vento che s’insinuava tra gli alberi facendo barbugliare le foglie, gli riportava echi di grida disperate, l’orrore di ultimi sussulti, l’invocazione di un nome: l’unico che sale alle labbra ormai esangui nel momento supremo, “Mamma...”
Ora il ragazzo del ’98 che aveva meritato la croce di guerra, sull’attenti onorava quel passato che, seppure lontano, tornava presente nel proprio, forse ormai breve divenire. Batté i tacchi infine, mentre la mano rigida sul lato destro della fronte eseguì un perfetto saluto militare. Quando si girò, scorsi i suoi occhi liquidi e arrossati! Quasi che il ghiaccio azzurro che li colmava si fosse disciolto.
Al ritorno abbandonato sul sedile seguendo il panorama che fuggiva dal finestrino Gigi cantò tutto il tempo: “Vecchio scarpone”.
A casa si era attrezzato: aveva comprato il giradischi e dischi di villotte e cori alpini che gli ricordavano epiche battaglie e li accompagnava cantando rocamente e la mano armata d’una bacchetta immaginaria, li dirigeva con ampi gesti.
Quando passavo da lui, mi chiedeva di far andare uno di quei dischi e mi pregava di fermarmi ad ascoltarlo con lui, infine prendeva a pretesto il brano per sgranare momenti suoi sempre verdi ed io volentieri lo ascoltavo.
Come se sentisse vicina la dipartita, un giorno volle che lo seguissi nella sua camera. Dal cassetto del comò estrasse, accolto in un panno un cofanetto, da cui estrasse la croce di guerra. Era l’unico riconoscimento che non aveva voluto esporre nelle pareti della sala d’entrata della casa.
«È l’unico riconoscimento che non vado fiero di aver ricevuto, avendo vissuto profondamente la tragedia che quella guerra cruenta ha comportato e aver visto quanto sangue di giovani vite è stato versato. Tu sei giovane, te lo lascio come monito, affinché ti ricordi sempre che le guerre sono una vera maledizione da scongiurare sempre».
Aveva parlato quasi sommessamente senza la sua proverbiale enfasi e tono deciso che ero abituato a sentire, come avesse voluto liberarsi di un aggetto ingombrante che forse gli dava anche un po’ di fastidio. Poco tempo dopo se n’era andato per sempre a ritrovare la sua Palmira, la dolce moglie che in silenzio, dolce e premurosa l’aveva curato e ammirato quel “ragazzo del 98”.