La restanza

Il nuovo libro dell’antropologo e scrittore Vito Teti. Un saggio che analizza le ragioni del restare in un mondo segnato da non più luoghi e non ancora luoghi

Ci sono alcuni libri che hanno come bisogno di una temperatura ad hoc per essere assaporati al meglio. Un po’ come certi vini o certi cibi. Almeno a me succede così. Per cui, quando tempo fa ho acquistato Restanza (Einaudi) di Vito Teti, visto il tema trattato, ho pensato che la temperatura giusta per leggerlo sarebbe stata quella un po’ asfissiante delle ore più calde di luglio, che tanto mi ricordano la “controra” del Sud, quel paio d’ore del primo pomeriggio d’estate in cui il sole picchia duro, fuori tutto è sospeso, per strada non c’è in giro un’anima, in casa le tende fanno fatica a creare un po’ di riparo e i pensieri vagano per mille traiettorie intrisi di pathos e “appucundria”, come direbbe Pino Daniele, cioè di una malinconia inesprimibile.

Che cos’è la restanza?
Essenzialmente è una voce dolce, potente, a volte anche dolente, che si alza dal Sud. E nel farlo assume tante declinazioni e significati: è sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare; è il nome che i vecchi contadini davano al pane avanzato, il “pane della restanza”, appunto, che non si buttava mai, che andava custodito e variamente ripassato (cotto, arrostito, ammollato, cosparso di olio, ecc.) all’insegna di una cultura del valore e della conservazione; è il titolo di un film, “La restanza”, di Alessandra Coppola, strutturato come una serie di interviste a un gruppo di trentenni pugliesi di Castiglione d’Otranto che rifiutano l’idea della fuga come unica soluzione ai problemi atavici del Mezzogiorno e decidono di avviare progetti di riqualificazione agricola e urbana tali da trasformare Castiglione nel paese della restanza; è un’espressione felice che, pur non avendo la potenza e la “solidità” di termini come malinconia, nostalgia, erranza ne condivide l’ambivalenza concettuale e la fecondità dei contrasti; è come una sorta di elastico che ti permette di arrivare ai limiti del mondo ma se li oltrepassi vieni rimbalzato indietro; è un rimanere dopo essere arrivati e che quindi riguarda non ciò che è stato ma ciò che sarà o che potrà essere.

Vito Teti è un antropologo culturale che ha insegnato all’università della Calabria, che lì vive nella stessa casa in cui è nato pur avendo girato il mondo e, nella nota dei ringraziamenti, dichiara che questo libro è stato per lui “pathos, pena, pietas e amore per quel che resta e per quel che rinasce, racconto e memoria di un universo di erranze, esili, dolori, resistenze, ricerca costante e attiva di un nuovo senso e di nuove possibili forme di appaesamento”.
In sostanza è un atto d’amore viscerale per la vita e la cultura mediterranea. Che comprendo e condivido pienamente.

Posted

16 Jul 2023

Critica letteraria


Francesco Maggio



Foto di Vito Teti





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