Questioni di etica del giornalismo

Il giornalismo del Ventunesimo secolo è un giornalismo in transizione, diretto verso un paradigma ancora non chiaramente definito. I sempre più nuovi supporti tecnologici, infatti, spingono verso una necessaria ristrutturazione dei processi di produzione e di circolazione dell’informazione, così come introducono trasformazioni sociali che richiedono una riflessione rispetto ai bisogni dei cittadini. Oltre al formato – estensione, linguaggio, supporto –, che risulta più adeguato ai consumatori iperconnessi, il giornalismo si interroga su quale funzione sociale esso dovrebbe avere nella società contemporanea.


Il modello originario del giornalismo come “cane da guardia” il cui compito consisteva nel controllare il potere e denunciarne gli abusi, in difesa dei diritti dei cittadini, ha indubbiamente perso buona parte del suo valore negli ultimi tre decenni. Il nuovo – ma ormai affermato – concetto di democrazia deliberativa improntato all’etica del discorso, trova riscontro ormai nel public journalism – nato negli anni Novanta negli USA –, che è orientato principalmente a favorire la partecipazione negli affari pubblici, e ancora di più nel citizen journalism, o participatory journalis, nel quale il cittadino non è più un semplice ricettore, ma un produttore esso stesso di informazione.

Entrambi questi due modelli di giornalismo presuppongono il valore dell’inclusione nella presa di decisioni, per la cui realizzazione è necessaria la libertà di espressione. Di pari passo, si è passati da un modello di giornalismo oggettivista, che agiva come “specchio della realtà”, verso un modello di giornalismo che si muove verso un esercizio professionale più interpretativo e con maggior coinvolgimento personale, con tutti i rischi che ciò comporta. Quella distanza che avrebbe dovuto garantire l’imparzialità nell’informazione è stata messa in discussione non solo a causa della sua sostanziale impraticabilità ma anche per la sua inefficacia. Oggi, pertanto, si preferisce una vicinanza che abilita alla spiegazione degli eventi oltre che alla loro descrizione, orientando così l’opinione pubblica.
Queste trasformazioni tecniche e sociali pongono un interrogativo: l’etica che valeva per il giornalismo distributivo vale ancora anche per il giornalismo partecipativo? La risposta non è univoca, ovviamente. D’altra parte, i modelli professionali di produzione dell’informazione – selezione, raccolta, gerarchizzazione – permangono sia nella carta stampata, sia nella televisione, sia nella radio, sia nei new media. Un argomento che agita la discussione in ambito professionale, poi, è quello dei valori che ispirano il buon giornalismo. I dilemmi etici con i quali convive il giornalismo sono da collegare a due tradizioni di giornalismo: quella che difende la libertà di stampa e quella che invece enfatizza la responsabilità sociale. Non si possono dimenticare, tuttavia, gli elementi che derivano dal sistema politico-economico e dal modo in cui si esercita il potere, oltre agli aspetti legati alla personalità dei singoli giornalisti, in termini di cultura professionale e formazione. È cosa ormai assodata e risaputa, infatti, che il potere politico-economico è un importante fattore di pressione che limita l’indipendenza editoriale e professionale, nonostante la società sia edificata sui valori della libertà.

Basti pensare alla “lottizzazione” politica dell’informazione pubblica, agli spostamenti e alle “defenestrazioni” di giornalisti, per rendersi conto di quanto queste pratiche siano delle forme di “censura indiretta”. E anche quando l’influenza diretta del potere politico viene meno, ecco pronta l’influenza dell’altro potere, quello economico. I media privati, soprattutto con fini commerciali, infatti, si finanziano con la pubblicità, il cui prezzo da pagare è legato in maniera sensibile alle dimensioni della loro audience, secondo la logica del mercato. Le notizie prodotte, mercificate in quanto beni di consumo, tendono così a spettacolizzarsi – secondo la logica dell’infotainment – e a depauperare il loro specifico valore aggiunto.

Al di là dei condizionamenti derivanti dalle pressioni esterne e dall’organizzazione gerarchica dei media tradizionali, comunque, l’eticità o meno del giornalismo riguarda l’atteggiamento “umano” a partire dal quale i giornalisti interpretano e intendono il loro lavoro: è questo atteggiamento – di carattere antropologico, potremmo dire, ma professionalmente orientato –, che definisce la loro concezione del pubblico, il quale può essere visto come mero target, semplicemente come audience, oppure può essere visto come un insieme di cittadini con dignità di fruitori – secondo un atteggiamento di servizio –, il ché implica il trattamento delle notizie in termini di sviluppo umano.
D’altra parte, a questo servono i codici deontologici, che prevedono standard di qualità etici a difesa della dignità umana; i codici deontologici sono statuti che definiscono l’identità del buon giornalista e identificano l’etica con il corretto esercizio della professione. Da questo punto di vista, l’atteggiamento culturale-professionale – umano – del giornalista incide sulla “eticità” della notizia più delle competenze tecniche che servono per realizzarla.
Non si può fare “buon giornalismo”, pertanto, se non si possiede un’adeguata vocazione sociale. Da questo punto di vista il giornalista è come il medico o il docente: l’etica della virtù o della cura applicate al mondo dell’informazione e, dunque, al giornalismo, pongono l’attenzione sulla dedizione e sulla responsabilità che ognuno dovrebbe assumere a partire dalla sua propria libertà.

Essere un buon giornalista presuppone, innanzitutto, essere in possesso della necessaria preparazione e formazione – professionale, culturale, politica, scientifica – per poter interpretare correttamente i fatti che diventano notizie.

L’idea classica della verità come perfetta corrispondenza della notizia con la realtà – che alimentava la metafora del giornalismo come “specchio della realtà” o come “finestra sul mondo” – risulta oggi abbastanza sbiadita; il valore etico che consisteva nel “riflettere la realtà” è riformulato nel “dire la verità” e, dunque, nella “veracità” in quanto distinta dalla “verità”: la verità, infatti, può essere la qualità oggettiva di un fatto, mentre la veracità è la qualità del “dire” il vero, del “raccontare” un fatto, di ciò che è conforme a verità o fonte di verità. Da questo punto di vista, la “cattiva prassi” consiste nello strumentalizzare il racconto, il dire giornalistico, per fini particolari o nel dare informazioni senza avere riscontri sufficienti o, anche, nel non tenere conto dell’impatto – negativo – di un’informazione sull’opinione pubblica: ciò chiama in causa il criterio dell’ “utilità sociale” dell’informazione, secondo l’ipotesi che, dal punto di vista etico, il “buon giornalismo” – e in genere di tutta la comunicazione – ha a che fare anche con finalità di sviluppo umano e sociale. Tutti questi elementi sono alla base della definizione etica del buon giornalismo come “giornalismo responsabile”, il quale ha nel cittadino utente – lettore, spettatore, ascoltatore – il suo primo e fondamentale referente, e si propone chiaramente di contribuire allo sviluppo umano e sociale. Il buon giornalista, pertanto, il giornalista responsabile, quello che “fa bene” il suo lavoro, da questo punto di vista, è quello che riesce a coniugare le diverse tecniche di produzione dell’informazione col fondamentale atteggiamento di rispetto della dignità delle persone: quello, cioè, che vive il suo proprio diritto – la libertà di espressione – come obbligo di rispettare e far valere il diritto del pubblico, ovvero il diritto all’informazione.

In base a questa visione, la funzione sociale del giornalismo contemporaneo è quella di favorire il dialogo sociale. Il giornalismo dei nostri tempi, dunque – per essere buon giornalismo –, non può più caratterizzarsi semplicemente e genericamente per il fatto di essere “imparziale”, ma deve andare oltre: ovvero, si può parlare di buon giornalismo, di lavoro giornalistico fatto bene, quando esso “abbraccia” l’umanità che traspare dietro a ogni accadimento. Sotto l’aspetto etico, infatti, se si guarda agli effetti sociali e umani – cognitivi e comportamentali – dell’informazione, la neutralità e l’imparzialità non sono più – in sé stesse – un valore assoluto: primo, perché esse sono sostanzialmente e praticamente impossibili da realizzare; secondo, perché non aiutano nella “soluzione dei conflitti”.

Per quanto riguarda l’imparzialità, poi, è necessario distinguere due diverse accezioni, entrambi riconducibili all’idea di lasciare il cittadino-utente “libero” di farsi autonomamente la sua propria opinione, senza condizionamenti: l’una riferita alla cosiddetta “assenza di opinioni” – su cui si fonda il valore deontologico del giornalismo –, l’altra riferita all’assenza di particolari e pregiudizievoli assunzioni e preconcetti, di carattere metafisico o religioso per esempio.

Né una neutralità indifferente e né un’imparzialità distante, fredda, aiutano molto nel favorire il dialogo sociale, dato che considerare la professione giornalistica come una missione comporta ormai anche la metabolizzazione di alcuni principi di carattere antropologico, come, per esempio, il fatto che la storia sia un’opportunità per l’umanità e che una cooperazione sociale basata sull’uguaglianza consente all’uomo di migliorarsi. Pertanto, sarebbe meglio non generare aspettative irrealizzabili e inefficaci di imparzialità e neutralità: anzi, è bene che il giornalista sia “parziale” soprattutto in alcuni casi, come quando, per esempio, le parole e i fatti incitano alla violenza, così come egli ha il dovere di facilitare l’instaurarsi di relazioni pacifiche, civili e rispettose.

È il Consiglio d’Europa che ce lo dice: “Nessuno deve mantenersi neutrale di fronte alla difesa dei valori democratici. A tale scopo, i mezzi di comunicazione sociale devono contribuire in misura determinante a prevenire momenti di tensione, a favorire la mutua comprensione, la tolleranza e la fiducia tra le diverse comunità”. Da questo punto di vista, pertanto, il principio etico della non-imparzialità “è compromesso con la pace, è lotta aperta e decisa contro ogni forma di violenza, odio e discriminazione”. Si tratta, come si vede, di un coinvolgimento cosmopolita, che riguarda tutta l’umanità. Ciò vuol dire che nella società contemporanea, un giornalismo che vuole essere di “servizio” per la società deve smettere di considerarsi semplice “osservatore” per abbracciare il ruolo di “attore protagonista” nel promuovere e favorire buone relazioni sociali, la pace e lo sviluppo umano.

Posted

15 Jul 2023

Pensieri e riflessioni


Michele Petullà



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