La notte oscura dell’anima

Quel momento della vita in cui il buio prende il sopravvento

Si tratta di una dimensione interiore profonda che intellettuali e mistici hanno vissuto e rappresentato simbolicamente. Questa dimensione, definita “notte oscura”, è imbevuta di senso mistico, non nel senso che tutti abbiano avuto contatto o desiderio di Dio, o che abbiano maturato una fede certa, ma che alcune fasi di caduta ed oscuramento della vita non possono ricevere spiegazione e rimandano al mistero, ad una specie di catabasi infernale.



Nella notte oscura dell’anima, che talora coincide con quella del mondo, l’uomo sente oscurarsi il suo castello interiore, non più sentito come abitazione protettiva, ma prigione ed abisso da cui è difficile risalire, mentre ci si aggira con angoscia per ritrovare qualche segnale luminoso che indichi l’uscita.
Certamente non manca mai una connotazione storica a determinare la crisi spirituale di un uomo, ma molte volte il mondo esterno e l’appartenenza sociale sono poca cosa rispetto alla risonanza entro le pareti interne della personalità. A differenza di Dante, che presenta chiaramente le finalità del suo viaggio all’umanità ed apre il senso riposto della sua allegoria, gli autori contemporanei appaiono chiusi nella dimensione notturna del loro percorso, disperati e privi di aspirazioni sui cambiamenti del mondo. Camus cala nell’immagine figurale di una città appestata la sua crisi esistenziale (Albert Camus: La peste), Dostoevskij trasferisce le violenze sperimentate nella sua famiglia nella solitudine ritratta dei personaggi, con l’intensità di un santo laico del nostro tempo, inquieto ed assetato di un Dio lontano. Questa assenza e nostalgia della divinità si sentono perfino nella vita di Madre Teresa, destinata a vivere un’infinita notte oscura, forte solo dei doveri iscritti nella sua anima per poter continuare la sua opera generosa nel mondo dei diseredati.

L’esperienza dell’oscurità interiore associa figure di varia formazione, soprattutto nella società contemporanea, in cui la fede ha perso i caratteri certi e dogmatici, presentandosi nelle forme del vuoto, del bisogno, della mancanza, dell’attesa di ricostruirsi e di approdare a qualche verità salutare. Nel descrivere la sua esperienza di smarrimento l’uomo attuale non ha da offrire il suo esempio, né può circoscrivere tappe e gradini per ritrovare la luce, come facevano i Santi (San Giovanni della Croce, Santa Teresa D’Avila), ma può solo parlare per enigmi e balbettamenti, Il Castello Interiore di Santa Teresa D’Avila, confrontato con il Castello di Kafka, riflette la distanza delle personalità e della formazione: l’uno presentato allegoricamente con l’immagine familiare di un’abitazione bella e solida ubicata nel cuore, l’altro una costruzione enigmatica ed inaccessibile, come il Dio assente. Di qui nella Santa notiamo speranza e sicurezza, perché tra l’uomo e Dio esiste un filo di comunicazione mai interrotto, che troverà sempre misericordia e presenza accogliente. L’uomo di Kafka, invece, è destinato a rimanere all’esterno del castello, struttura immensa ed assurda come la vita stessa, inaccessibile ad ogni tentativo. (Kafka: Il processo, La legge in Racconti).

La Fortezza di Giudici è anch’essa la simbologia di una notte oscura, entro cui il detenuto sconta la sua pena tra chiusura e anelito di libertà, vuota depressione ed esperienza liberatoria di allusiva marca religiosa, di una religiosità proveniente più dall’emozione dell’arte e dai meandri umani che dalle certezze della fede. L’io di Giudici, che riflette l’uomo attuale, accetta rigori e catene per colpe imprecisate, intricati fili e sentieri della sua foresta interiore.


L’angoscia e lo spaesamento producono al prigioniero visioni che richiamano quelle di Santi messi alla prova da esseri malefici, o i percorsi esistenziali degli eroi della letteratura: i demoni che assillano i personaggi di Dostoevskij, o le Erinni che inquietano Oreste, in una forma di personalizzazione purificatrice della colpa commessa.
Come il prigioniero montaliano (Montale: La bufera, Il sogno del prigioniero), il prigioniero della fortezza si proietta in salvifici sogni d’amore, in momenti di illuminazione, in cui riappare l’antica fede di bambino di cui ha nostalgia come di acqua fresca sulla sua arida persona. Le immagini visionarie possono transustanziarsi nella paronomasia “Lembo-grembo”, e il grembo della madre terrena, di cui l’autore ha sentito la perdita, trascende ad un livello di eternità, come accade per lo scrittore Grossman, acquistando i connotati della Madonna, che si è offerta per la salvezza del mondo; anche la sua morte prende le sembianze della Deposizione del Cristo, nella posa umile di un uomo sofferente, deposto sulle sue stesse braccia mentre si offre nella solitudine alla compassione volontaria del mondo.
Il personaggio di Fortezza, disteso sul suo pancaccio, ha acuito la sua sensibilità, percepisce ogni minimo rumore, le parole bisbigliate dai suoi aguzzini, i loro passi ingigantiti nel silenzio, le risate scomposte come scrosci di beffe demoniache, sensazioni in tutto simili a quelle raccontate poeticamente nel diario di Dietrich Bonhoeffer. I pensieri del prigioniero si ingarbugliano, ricordi teneri del passato penetrano nel cuore come frecce acute, passato e presente si rincorrono, amori ed affetti si scontrano con il gelo del carcere, come nella Casa dei morti del personaggio autobiografico di Dostoevskij (Memorie da una casa di morti), e nella lunga notte esistenziale di Grossman. (Tutto scorre, Madonna Sistina). La somma degli orrori vissuti, in Grossman come in Giudici, trova soluzione nel dolore patito e redento della Vergine, che rappresenta il dolore di tutte le madri, anche della madre personale con cui si stabilisce un afflato di profonda eternità. Il nome di Dio pronunciato con vituperio nella notte depressiva dell’anima, non è un atto empio, ma segno di nostalgia frustrata, del bisogno deluso per un’assenza che rende assurdo il mondo e perciò intollerabile. Alla stessa espressione blasfema del prigioniero ricorre Caproni nella rincorsa della Bestia-Parola-Verbo (G. Caproni: Il franco cacciatore; Il conte di kevenhuller) in una foresta-mondo abbandonata dalla Grazia, in una dimensione primordiale in cui la divinità assume contorni teriomorfi, non quelli più accessibili e familiari dell’immagine umana.
L’uomo contemporaneo, pur nella maturità della sua storia, non sa dare un volto e una definizione di Dio, dubita della Sua esistenza, Lo vede lontano, stoicamente Lo nega per fruire della sua libertà d’arbitrio e, contemporaneamente, Lo attende, come se da un momento all’altro potesse rivelarsi. La nebbia e la desolazione della terra di Caproni trova analogia con la desolata oscurità della fortezza di Giudici. Scompare l’uomo con le sue doti, scompare anche il linguaggio, perché la ridondante comunicazione, che ha intasato tutti i canali sociali, è vuota e priva di senso, mentre il trauma dell’afasia poetica simboleggia la ricerca della parola unica e creatrice. La notte oscura della fortezza implica l’oscuramento anche del linguaggio, perché il vuoto interiore non trova segni e strumenti per esprimersi, producendo solo scatti blasfemi e fantasie irrelate prive di senso.
L’uomo contemporaneo, irretito nella notte oscura della sua anima, vive una situazione ossimorica: spergiura, mentre attende il ripetersi di quel mistero che ha coinvolto una Madre e un Figlio nella salvezza del mondo.

Posted

27 Mar 2024

Pensieri e riflessioni


Elisa Lizzi



Foto dal web





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