Intervista a Beppe Mariano

Poeta granitico e di spessore, appartenente al Realismo Terminale

L’intervista a Beppe Mariano è un’occasione per percorrere sessant’anni del panorama poetico culturale che hanno segnato il passaggio da un secolo all’altro, per ritrovare esperienze comuni di vita: lui, gigante del Monviso e io, mozzo mediterraneo. L’obiettivo? Creare spunti di riflessioni che fossero un contributo per i realisti terminali nel loro percorso poetico, e per dare elementi di conoscenza del movimento a coloro che lo seguono. La disponibilità di Mariano ha reso facile l’intento.


Colgo l’occasione per segnalare la sua bellissima raccolta di poesie edita dalla Mursia con la prefazione di Guido Oldani.
“Il Monviso intendilo, lettore, come la metà di una clessidra, la cui parte superiore è invisibile. Dalla cima dei millenni sono discesi granelli di psichico dolore, ma anche, benché rari di gioia.” (…)

Buongiorno Beppe, parlaci del tuo percorso poetico, della tua poesia e delle motivazioni che ti hanno portato al Realismo Terminale.
Ti sono grato, Tania, perché mi consenti una riflessione sul mio ormai lungo percorso poetico. Stefano Verdino nel 2012 commentando la mia antologia Il seme di un pensiero, edita da Aragno, che raccoglieva cinquant’anni di mia produzione poetica, scrisse tra l’altro di una mia invenzione testuale in merito a una sezione del libro Scenari, nella quale (cito) “è l’automobile a costituire ‘scenario’ e lessico per una ricca allegoria (“Mai rimpiangere in retromarcia, / bisogna invece accelerare senza esitazione”; “insisti sulla pedaliera quotidiana / mentre il tergiorizzonte non funziona”).
“L’auto, ma non meno il treno, sono protagonisti di una poesia che, molto legata a un territorio, manifesta una continua osmosi tra radice (ed anche prigionia) e brama di orizzonte e sconfinamento”. Così scriveva Verdino. Ora ripensando a quel lungo periodo (andava dagli anni settanta ai novanta) di ricerca linguistica stimolata dal fatto che vivendo a Torino, città dell’automobile, sulla scorta delle indicazioni di Barthes, avevo riflettuto sul fatto del rapporto ormai inscindibile tra l’uomo e la macchina (nel caso specifico: l’automobile) il loro connaturarsi, l’influenza psicofisica che ne derivava. Avevo sperimentato un linguaggio in cui le parti organiche dell’auto si mischiavano osmoticamente con quelle umane. Non posso né so dire se quell’esperienza linguistica fosse già definibile come “realismo terminale” (la definizione appartiene a Guido Oldani dopo che vent’anni fa una sua ampia riflessione e antropologico e linguistico ha posto le basi del fenomeno che oggi conosciamo come appunto “realismo terminale”).
Si trattava ad ogni buon conto di realismo, in quanto in esso la mia poesia si rinnovava sperimentalmente in consonanza allo sviluppo sempre più invasivo (e oppressivo) della tecnologia. Alla raccolta Scenari seguì Scenari di congedo con la quale, inaspettatamente, vinsi il Premio Cesare Pavese nel 1996. Ed era una poesia meno severa e spigolosa dei primi “scenari”, come se la sua struttura linguistica fosse ormai assimilata, entrata in circolo, fatta discorso. Tale esperienza l’ho ripresa qualche anno fa quando ho scritto la raccolta Il Monviso e il suo rovescio, nella quale invece delle descrizioni poetiche della montagna, il Monviso e soprattutto il suo rovescio, diventano la metafora del purgatorio e dell’inferno danteschi attraverso l’inquietudine tecnologica e il malessere psicologico, se non addirittura psichico. La differenza rispetto ad allora è che adesso la mia scrittura è molto più ironica, pervasa perfino di umorismo, talvolta “nero” (qualcuno vi ha scorto, bontà sua, un riferimento a Palazzeschi).

Il contesto storico che ingloba tutto e il contrario di tutto, rischia di anestetizzare l’ironia, svuotandola del suo mordente corrosivo, come resistere?
Si è spesso detto “l’arma dell’ironia”. Ma l’ironia è ancora un’arma in questo contesto, che appunto, ingloba tutto e il contrario di tutto? Pur essendo un coltivatore diretto dell’ironia, non mi è facile rispondere. Del resto la scrittura può molto, ma non tutto. Uno dei problemi maggiori credo sia l’essere giunti ad un grado altissimo di frattura della realtà, in quanto la virtualità ha cominciato ad avere il sopravvento, la stessa intelligenza sta per diventare sempre più artificiale.
All’umano che cosa resta? L’ironia, appunto. Un’ironia di contrasto, certo. A tal proposito voglio citare un saggio I sentieri interrotti della scrittura che Giorgio Bàrberi Squarotti scrisse negli anni Settanta per la rivista Pianura (e in modo più ampliato, anni dopo, per la rivista Sigma). Bàrberi analizzava la situazione di precarietà in cui si trovava a quel tempo la scrittura creativa di fronte all’invadenza dei media. Considerava quanto (cito) “lo spazio della scrittura viene sempre più a restringersi non soltanto per la rapidissima consumazione di ogni modalità di forma del discorso in seguito all’appropriazione di esse da parte dei mezzi di comunicazione di massa e della produzione industriale della cultura, ma soprattutto perché presso che completamente sottratta a chi scrive è la possibilità di istituire un ambito ideologico per la propria scrittura”, per cui concludeva “alla scrittura non resta altro spazio che quello di essere il negativo continuamente dichiarato dell’utilmente detto”. Ne consegue che è la scrittura ironica la sola capace di “decodificare i codici espressivi e impositivi dei vari poteri e mostrarne antifrasticamente la fragilità, l’improbabilità di durata e di sviluppo.”
L’ironia antifrastica, dunque, il fingere di assecondare il discorso del potere portandolo a vistose conseguenze del ridicolo. Al tempo in cui Barberi scriveva il suo “ammonimento” sulla terza pagina della Gazzetta del Popolo di Torino pubblicavo dei raccontini ironici, ispirandomi a un mio maestro di allora - Durrenmatt - nei quali il punto di partenza era un paradosso: il paradosso che poi svolgevo per mezzo della logica, arrivando così a soluzioni avversative, che pur contenevano la realtà e l’avvertito conflitto con tale realtà. Naturalmente facevo questo con il sorriso cercando di divertire (del resto, se i miei raccontini non fossero stati divertenti, il caporedattore li avrebbe mandati al macero).

Nella poesia civile l’obiettivo è quello di risvegliare le coscienze e il realismo terminale ci da strumenti importanti per farlo; tu pensi che ci sia ancora speranza per il mondo? Dopo la demolizione dei grandi cardini su cui una società civile dovrebbe fondarsi: salute, lavoro, cultura e ambiente, che ruolo ha la poesia?
Può farlo il “realismo terminale”? È nelle sue prospettive, credo. Non più vincolata, o meno vincolata di altre poetiche alle ascendenze letterarie di una tradizione che si è pure di volta in volta rinnovata, il “realismo terminale” si propone innanzitutto come nuova antropologia che prosegue, ampliandola, quella pasoliniana di constatazione dell’alterazione e progressiva perdita dell’umano.
Mentre Pasolini come poeta era ancora condizionato dall’ideologia, marxista nel suo caso (d’un marxismo umano, per fortuna) i poeti del “realismo terminale” non dovrebbero più sottostare a condizionamenti di quel tipo, né credo di altra tipologia. Potrebbero opporsi a questo mondo insoddisfacente, spesso oppressivo, cercando di trasformarlo, perlomeno linguisticamente. Del resto, la felice intuizione di Oldani della similitudine rovesciata, dove il soggetto non è più l’umano ma il prodotto merceologico che lo condiziona (così come domani i robot potrebbero condizionarlo fino alla sua progressiva sostituzione) è una presa di coscienza necessaria perché si cominci a poetare.
Se c’è salvezza per il Mondo, chiedi? Così come è e come sempre più possiamo configurarcelo, il mondo degli esseri umani procede verso la sua estinzione. Ed è già a buon punto. Ci son voluti molti secoli all’uomo pre-tecnologico per inquinare la Terra; ma ora il sistema capitalistico-consumistico globale su cui si basa la modernità, accelera enormemente tale processo e lo rende probabilmente irreversibile. La Terra tuttavia continuerà a vivere, rigenerandosi dopo l’estinzione o dopo perlomeno una grande riduzione dell’umano.
L’uomo, temo, sarà via via sostituito dai robot, che non avranno i suoi bisogni e la sua fragilità costituzionale, a prevalere sarà l’intelligenza artificiale. Nel frattempo può darsi che qualche umano
riesca a trovare riparo su pianetini e ricominci laggiù il suo ciclo di espansione tecnologica-inquinamento-migrazione-estinzione... La poesia spero possa (deve!) comunicare tutto questo travaglio, naturalmente nell’ambito del suo specifico, rinnovando l’apparato metaforico e linguistico.

Rispondo alla terza domanda. La definizione di “poesia civile” può essere tautologica. Secondo me la poesia è comunque civile, anche quando si sofferma sull’ “Io”. Una delle insidie è quella del voler caricare troppo la poesia di aspettative civiche e civili, di toni apologetici o di denuncia: si rischia spesso il tono retorico, l’indigesto. Tante volte in poesia è meglio alludere che dire. Ma per fortuna non ci sono regole fisse. Oldani, ad esempio, sceglie per la sua poesia cose minutamente “pascoliane”, parti umilissime della realtà, che dalla realtà estrapola e ridefinisce semanticamente, raccordandole tra di loro in modo originale, fino a farne metafore nuove, o similitudini rovesciate quali spie linguistiche d’una realtà politica e tecnologica in cui l’umano è sempre più estromesso. La poesia, oggi quasi senza più status sociale, può combattere una simile battaglia. Perché no? Anche Davide probabilmente non si aspettava di vincere.

Parlando delle nuove generazioni, chi è il poeta del terzo millennio? Che rotta immagini per il Realismo Terminale?
Per affrontare la ipertecnologia prossima futura e la conseguente disumanizzazione dell’uomo a vantaggio della macchina e dei suoi cicli complessi, la progressiva distruzione ambientale a vantaggio di una produzione nevrotica delle merci, il poeta, suppongo, dovrà dare testimonianza di tale complessità; ma, credo, non più con astruserie verbali, come è avvenuto talvolta nel Novecento; dovrà mirare invece a raggiungere la semplicità (che è sempre stato, del resto, il valore della poesia). Quanto più il mondo sarà complesso, tanto più dovrà il poeta essere semplice, affinché possa risaltare la sua necessità di essere socialmente vigile e umano (la definizione “umano” non è lapalissiana, poiché di fronte ai robot che già scrivono anche “poesie”, diventa necessaria distinzione). Probabilmente il poeta di domani non dovrà più stare nel mondo, per contrastarlo, in solitudine, bensì cercherà compagni e sodali di avventura; così come mi sembra avvenga per i poeti del Realismo Terminale.

Posted

01 Sep 2020

Realismo terminale


Taniuska - Tania di Malta



Foto di Beppe Mariano





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