La tana del riccio

Un libro di Rosa Pugliese con cui l'Autrice prova a descriverci quel perenne essere in bilico sul burrone fra solitudini e relazioni, paura e sperimentazione, distanza fisica e vicinanza sociale

La più imprevedibile delle vite ci tocca
al primo impatto
conviene o non conviene
ad essa apparteniamo…


Versi tratti dall’ultima pubblicazione di Rosa Pugliese in cui ravvedo, in una sintesi di mistica accettazione, il percorso della silloge La tana del riccio, volume di mezzo della trilogia poetica, successivo a La strategia della formica (2019) e antecedente a Il silenzio della crisalide ancora in fieri, in officina creativa.





Non sfugge certo all’attenzione il chiaro riferimento, nei tre titoli delle raccolte, all’esattezza analitica del mondo animale – formica, riccio, crisalide – in cui la coesistenza nell’ordine naturale delle cose assume valenza universale e conseguente corrispondenza all’equilibrio del sistema creativo.
La tana del riccio (Edizioni AttraVerso), titolo emblematico rivolto a un piccolo mammifero che lascia la sua tana solo di notte, il cui corpo è rivestito di aculei che lo rendono pressoché inavvicinabile.
Il volume è stato pubblicato nel 2021, periodo in cui era ancora in atto il collasso psicologico – forse ancora irrisolto – dovuto alla pandemia in cui noi stessi vivemmo alla stregua dei ricci, nel buio tossico, in attesa di un barlume di luce e speranza. Alla stessa maniera, terrorizzati dal contatto sociale durante l’imposizione del distanziamento, abbiamo sviluppato degli aculei invisibili, allontanandoci dai nostri simili e soprattutto dagli affetti. Gli aculei erano i 100 cm, un muro di diffidenza e ostilità che ci ha spinti all’isolamento nelle nostre tane d’anima e cemento. Ma questa è una mia supposizione, giunta per associazione di idee, di certo l’intuitiva metafora sottende al timore di farsi male, di rapportarsi al dolore incuneato sotto pelle, che non si lascia dimenticare; alla diffidenza negli scambi relazionali in un contesto contemporaneo confuso che sposta gli orizzonti dall’alba al tramonto. Gli aculei divengono così non un’arma di offesa – la poesia di Rosa Pugliese è benigna e indulgente – ma di difesa, uno scudo emotivo tra il silenzio della solitudine e l’istintiva necessità di aprirsi alla vita e alla compenetrazione con l’altro.

Elaborare il codice poetico del volume è entrare in una dimensione interiore di immane sensibilità, l’intus il cui universo ruota intorno a elementi esistenziali primordiali, telos di una pervasività sconcertante, caldeggiante di sentimenti e humana pietās.
Molte liriche tracciano infatti il doloroso percorso femminile mappato nelle varie aeree geografiche con una sapienza lirica in cui la denuncia assume i toni del decoro:
/ moderna Sherazade / ora hai un treno da prendere / e un passato da perdere /
o il dramma di chi fugge dalla miseria e dai conflitti, inghiottito dalle illusioni chimeriche e defenestrato dalla disabilità empatica:
acque su acque navigammo sul fondo / in cerca di un passaggio a occidente / a pochi fu concesso di vivere / fiumana di umana gente /
Eppure nulla è urlato, assente il germe di rivalsa o della rabbia a favore dell’apologia dello sconforto e dello sconcerto per l’incapacità umana nell’uccidere il male. Traspare piuttosto l’accoglienza della sofferenza, non si sfugge al dolore e non vi è lacerazione nel sostenerne il carico in un afflato di condivisione misericordiosa.

“Ma chi se gridassi mi udrebbe dalle schiere degli angeli?” (Rilke da Elegie di Duino)

Nel dubbio che rimarrà irrisolto, così come lo è stato per lo stesso Rilke, la poesia diviene per Rosa Pugliese la chiave di accesso per esprimere l’indefinibile, la scialuppa di salvataggio laddove il linguaggio è orfano di pane nell’accettazione dei limiti umani e il bisogno di trovare un ormeggio per non perdersi nei tombini metropolitani o tra l’anonimato delle periferie sentimentali:
/ sono nata, come tutti, muschiata e frusciante / edera che misura il muro a cui avvinghiarsi /
e in tale “misurazione” ricompaiono, a difesa, gli aculei, lo schermo protettivo del presagio intimistico in cui riaffiora il timore di lasciarsi andare razionalmente o coinvolgere emotivamente. Emerge prepotente il sentore di incompletezza – muschiata – e la necessità di un solido sostegno, “come tutti” sottolinea l’Autrice, ammissione di un traslato universale che assurge al ruolo di collettività. “Io sono in quanto siamo.”

Non manca nella silloge lo smarrimento della solitudine, riversato con pudore ancestrale quando la Nostra scioglie i nodi della sua riservata femminilità; una sorta di atarassia sentimentale in cui diviene donna-luna con le fasi alternanti, a volte mancante a sé stessa:
/ perché siamo tutti soli / con le guance posate sulla notte / in attesa di una carezza / biancheggiata dall’orizzonte.
altre piena e tonda a primeggiare sull’oscurità:
/ baciale ancora le mie labbra / prima che la rugiada evapori dalle notti senza luna/

Una poetica escatologica che affronta il senso dell’esistenza, nelle varie sfaccettature, un macro-cosmo in cui l’individuo è costretto a destreggiarsi in endemici tentativi, propedeutici nel sentirsi parte del tutto il cui fine sfugge continuamente al nostro intendere:
/ / tre, i passi contati con cura / perché forse un’orma sospesa / porta tormento più di una traccia sicura //
“Tre i passi” un numero forse non a caso, un riferimento al sacro – la trinità – ma anche simbolo della perfetta armonia tra mente anima e corpo. Nella Kabbalah indica la genesi del movimento, uno sprone per uscire fuori da sé stessi, dalla tana.



Una poesia intrisa di genuina spiritualità, una fede che diviene ponte tra cielo e terra, cordone ombelicale tra materia e spirito – il “tre” come l’esserci, morire e rinascere – in cui la vita si riallaccia alla morte e la morte alita la vita:
/ / oggi piango / questo niente / traslato/ nei vivi./

E in tale percorso di riappropriazione “debita” l’Autrice ripercorre i luoghi trascorsi, conferendo un’anima palpitante ai paesaggi in un fraseggio dialogico – come tra alberi e foglie –, un canto lirico pervaso dal sapore di appartenenza fra querce, ulivi, nebbie, brina, pastura, ciliegi. Una terra dolce e amara, avida di pretese e generosa in bellezza. Un ritorno o una riscoperta della casa, l’attaccamento alla dimora congenita in cui i mattoni divengono pilastri nel compimento del viaggio, resistenti a ogni smottamento interiore, il “genius” loci che ci respira accanto:
/ nei muri ravvivati dagli anni / che riparano dal sole / conosco la certezza di vivere / la vita che a violacei grappoli / si protende nella vigna / profeta di un tempo migliore. /

Naturale l’accostamento a certa poesia classica dei luoghi natii, amati, rimembrati, densi di malinconica saudade (Foscolo, Leopardi, Sinisgalli, Ungaretti, Carducci, Penna…)
“Nessuno pensa o immagina / che cosa sia per me / questa materna terra ch’io sorvolo / come un ignoto, come un traditore.” (Vincenzo Cardarelli)
E quando D’Annunzio annuncia “Settembre andiamo / è tempo di migrare…” Pugliese aggiunge:
/ settembre depose lentamente i toni dell’estate / cadde l’autunno e sognai ancora alberi.

In ugual modo le radici preconizzano uno spazio vitale, essenziale, popolato da arabeschi affettivi che decorano androni e stanze, di quest’anima aggraziata, a tinte pastello in cui anche le ombre assumono tonalità delicate grazie alla dignità descrittiva dei versi:
/ ci sono giorni che la nebbia / (…) ci naviga incontro leggera /

Nell’intera silloge emerge imponente la presenza della madre, una mancanza marchiata a fuoco, indelebile, un legame dominante, necessario a ossigenare il sangue, linfa per sentirsi “radicata.”
Non per nulla la dedica introduttiva è “A mia madre” una figura impattante e necessaria, iconizzata da contorni delineati amabilmente quasi a renderla visibile al lettore: china sul cucito o nell’argenteo capello fino a comprendere che siamo dita nelle dita / eco di un ricordo /gioco della vita /.
Una madre che assurge al ruolo di protagonista nell’esistenza dell’Autrice su un impianto scenico costellato da un senso di appartenenza primordiale il cui distacco è materiale e non altro.

La tana del riccio è una fucina di emozioni così trasparenti e limpide da percepire il fluire di sorgenti cristalline perfino tra le spaziature dei versi mai eccessivi, misurati in un gettito fluido senza sovrabbondanze che possano distogliere dal messaggio portante. Figure retoriche dosate tra metafore, metonimie, allitterazioni e frequenti anafore a imprimere vigore concettuale:
/ a te lascio il rimpianto / a te, madre, regalo tutti i baci rubati /

Versi scolpiti, incentrati con sapienza, incarnando una interiorità consapevole ma intimidita dallo sciabordio esterno e che, come il riccio, necessita di lasciare la tana di tanto in tanto, per alimentarsi e confortarsi attraverso la condivisione umana, non senza restare un passo indietro per assenza estrema di egotismo e ipertrofia in un credo: l’amore.

/ ed è così che un punto, un filo e un aquilone / presero la giusta direzione.

Posted

24 Apr 2023

Critica letteraria


Maria Teresa Infante La Marca



Foto di Rosa Pugliese





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