I bombardamenti su Napoli e i ricoveri

Nel 1940 la città era impreparata ad ogni evento bellico, con pochi ricoveri pubblici efficienti, tenuto conto che molti di essi erano vecchie cantine trasformate e protette da muri paraschegge

Napoli. Due o tre anni prima rispetto al dopoguerra raccontato da Curzio Malaparte nel terribile e sconvolgente “La pelle”. Siamo in pieno conflitto bellico, con i bombardamenti già iniziati a novembre del 1940 e che andranno avanti sino all’aprile del ‘43: chi li ha contati sostiene che furono circa centoventi. La città pagava per la sua posizione strategica nel Mediterraneo; il suo porto infatti, con una flotta navale di tutto rispetto, parimenti a Taranto, Livorno e La Spezia, era il capolinea per la Libia.


Secondo fonti americane durante i cinque anni di guerra, furono circa venticinquemila le vittime e gran parte della città, dalla periferia al Centro Storico, fu distrutta. I più anziani ricordano ancora oggi il bombardamento del 4 agosto 1943 quando venne distrutta la trecentesca Basilica di Santa Chiara. Un gesto inutile ai fini di un vantaggio militare che suonò come uno sfregio. Lo stesso accadrà, circa sei mesi dopo, il 15 febbraio 1944, con il bombardamento e la distruzione dell’Abbazia di Montecassino, un attacco, seppur smentito dagli avvenimenti, che gli alleati giustificarono dichiarando la presenza di truppe tedesche in risalita verso il Centro-Italia all’interno dell’Abbazia.

Come dimenticare il suono delle sirene rincorrersi da terrazzo a terrazzo dove erano installate, che avvertivano dell’arrivo di aerei provenire da dietro al Vesuvio. Il suono ci svegliava nel pieno della notte (tale erano, a quell’epoca, per noi piccoli le ore 22), prima quasi amichevole, soffuso e leggero, poi sempre più immanente, come stesse sulla testa, mano a mano che gli aerei si avvicinavano a Napoli, volando su Castellammare di Stabia, poi su Torre Annunziata, poi su Torre del Greco. Le nostre orecchie ne risultavano lacerate, aumentando l’intontimento della sveglia improvvisa; e accresceva la nostra paura, perché sapevamo che la sirena di Piazza Dante, cui noi facevamo riferimento, era l’ultima, poi sarebbero arrivate le prime bombe.
Napoli, come il resto dell’Italia, era impreparata all’evento bellico che Mussolini ci aveva scaraventato addosso per quella assurda voglia di sedersi dopo pochi mesi – di questo era convinto – al tavolo dei vincitori con il diritto di chiedere qualcosa in cambio della discesa in guerra e dell’appoggio. Cinicamente aveva detto al maresciallo Badoglio, capo di Stato maggiore generale: “In settembre tutto sarà finito, ed io ho bisogno di alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace.
La difesa della città contro gli attacchi aerei, era affidata ai pochi cannoni delle poche navi che transitavano nel porto; la responsabilità di far fronte agli incendi ed altri danni degli edifici colpiti, ad improvvisati ed impreparati “capi palazzo”; le auto circolavano con i fanali azzurrati e c’era il coprifuoco. Misura, quest’ultima, del tutto inutile da imporre, perché avvenendo le incursioni aeree principalmente di notte, i napoletani appena all’imbrunire, correvano ai ricoveri pubblici e a quelli privati, sotto casa.

I ricoveri di Napoli, durante la guerra, rappresentano un capitolo a sé nella storia della città. Per la maggior parte improvvisati, ricavati dai meandri del sottosuolo della Napoli paleocristiana, angioina e borbonica, altro non erano che fetidi, umidi, maleodoranti cunicoli attraversati da acque nere. Pochi erano stati costruiti allo scopo. E, neppure questi, nella fretta e nell’approssimazione, avevano quei requisiti di vivibilità che le circostanze avrebbero imposto.


Quello di piazza del Gesù Nuovo, a sì e no cento metri da casa, ricavato da un’antica acquasantiera tra la Chiesa che porta lo stesso nome ed il Liceo Classico Genovesi, era il ricovero che frequentavamo di più, quando si pensava che l’attacco aereo non si prolungasse e non fosse di grandi proporzioni. Il bidello dell’istituto, spesso senza nemmeno aspettare la fine del suono della sirena, chiudeva il portoncino e ci lasciava inesorabilmente fuori, incurante delle nostre impaurite implorazioni.
Bisognava andare, allora, al ricovero pubblico di vico Sanfelice a piazza Dante, ancora un cento metri, attraverso via Cisterna dell’Olio – che percorrevamo quando già cominciavano a cadere le prime bombe – e che più aveva la parvenza di un bunker ben protetto.

Di quelle non volute e sgradite escursioni, a me, forse portato in braccio da uno dei miei fratelli più grandi, mentre mia sorella era nelle inseparabili braccia di mio padre, è rimasto nei miei occhi un cielo limpidissimo e stellato, pur nelle notti fredde degli inverni, segnato soltanto dai roteanti fasci di luce che si alzavano dalle postazioni antiaeree. Avevo soltanto cinque o sei anni, eppure è chiarissimo il ricordo di quei momenti quando imboccavamo, finalmente salvi, il ricovero.
Da una stretta e ripida scala con alti gradini, si arrivava giù ad una ventina di metri dalla strada che ci passava sopra e subito avvertivamo quasi una mancanza d’aria. Un lungo cunicolo, non più alto di un metro e quaranta e con il soffitto a volta intonacato di bianco, scendeva ancora per una decina di metri e si apriva, poi, in due o tre sale che, l’impressione era questa, erano molto ampie ed illuminate a giorno dalle lampade al neon.
Noi arrivavamo di solito per ultimi. Mia madre era la più restia a lasciare la casa, ricordo che diceva: “si amma murì, è meglio murì ccà int’ a casa nosta!
Fagottelli di stracci con dentro bambini piccoli, biberon, pentole con cibo, uomini e donne, ragazzi ed adulti, gli uni addossati agli altri, a scambiarsi calore o a darsi reciproco conforto in quel disumano modo, quando ci riuscivano, di dormire: sembrava che non da mezz’ora fossero lì, ma da giorni, se non da sempre. E, forse, per gli anziani ed i malati, che non potevano essere trasportati con facilità, all’improvviso suonare dell’allarme aereo, era proprio così. A turno, il padre o il figlio più grande e spesso anche le donne, facevano rapide sortite all’esterno, come topi affamati, per procurarsi acqua o latte o pane. Ritornavano dopo poco più di un’ora ma quasi mai il loro ritorno avveniva con l’aver procurato tutto: il razionamento alimentare tramite i bollini delle carte annonarie, assegnava a ciascuno pochi grammi di cibo ed il conseguente “mercato nero” già cominciava a dispiegare i suoi effetti perversi, arricchendo ancor più chi era già ricco e affamando maggiormente chi aveva già fame.

Posted

05 May 2021

Storia e cultura


Vittorio Fabbricatti



Foto dal web





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