La collana con le mascelle di riccio

Un amuleto della tradizione dei terrazzani foggiani contro l’invidia

Anticamente quando una terrazzana foggiana allattava un bambino, gli metteva al collo una collana con mascelle (“garze”) di riccio.
I terrazzani erano grandi cacciatori di riccio. Era una caccia facilissima, fortemente tradizionale e produttiva, per le caratteristiche, per le simboliche dell’animale e soprattutto per la bontà e prelibatezza della sua carne.




Un terrazzano mi raccontò che una notte alcuni cacciatori presero un grande spavento: alla sola luce della loro “lanterna” intravidero un grappolo d’uva che si muoveva da solo. Erano molto spaventati, anche perché a quei tempi ai fantasmi ci credevano seriamente. Poi, il più sveglio, ebbe l’illuminazione: “Questo è un riccio che porta l’uva ai figli! Con le zampette ha fatto cadere l’uva a terra e poi si è rotolato sopra, diventando come un grappolo d’uva per poterla trasportare! Per la miseria, la vigna più vicina sta a quattro chilometri, ne ha fatta di strada!”.

I terrazzani li catturavano nelle marane, nelle paludi, di notte, guidati da cani che avevano collari con sognali tipici per quella caccia. Quando li prendevano, conservavano sempre qualche mascella.

Ma a cosa serviva in realtà la collana di mascelle di riccio? A bloccare l’invidia che un’altra puerpera, senza volerlo o consciamente, lanciava verso una donna che aveva molto latte. Probabilmente la mascella dell’animale posta al collo doveva azzannare ed uccidere l’invidia.

SIMBOLISMO DEL RICCIO
Il riccio non è un animale aggressivo, ma piuttosto “timido”. Ovviamente i suoi aculei, soprattutto quando si “chiude a riccio”, spaventano gli animali che intendono aggredirlo.
La somiglianza con il riccio della castagna, ma soprattutto il suo vivere e cacciare di notte, ne fa un simbolo ctonio, invernale, ma benefico. In inverno la castagna è protetta da un cardo, che poi perde alla fine della bella stagione, lasciando cadere il suo delizioso frutto.

Ai tempi dell’antica Roma era allevato per la sua buona carne. Il suo pelo con gli aculei veniva usato per cardare la lana e per fare frustini (altre attività mitiche che simboleggiavano l’inverno). Lo scardare era collegato al pulire i prodotti, i frustini di punizione per la remissione dei peccati e delle colpe commesse.

Il riccio era l’emblema della fecondità. Era l’eroe ctonio perché uccideva i serpenti e per le tribù americane era considerato un animale potente, per la sua resistenza al veleno del serpente. Va anche detto che si nutriva di altri animali simboleggianti le forze oscure, ctonie, cioè topi, larve, lombrichi.
Alcuni popoli occidentali, per tradizione, pensavano che le streghe si trasformassero in ricci per succhiare il latte alle mucche.
Da noi, in Capitanata, non è mai il riccio a succhiare il latte alle mucche, ma il serpente cervone.
La tradizione crea un collegamento col latte e quindi con la collana con le mascelle del riccio.

Se si pensa che era il cervone a bere il latte e che il riccio lo uccideva, tutto ha un senso logico.
Gli studiosi sanno che le tradizioni non sono invenzioni, ma ereditate e quindi è verosimile accettare l’immagine delle streghe in forma di riccio che bevono il latte delle mucche. Di certo resta il fatto che non era il riccio a rubare il latte, ma il cervone.

Non era semplice uccidere un riccio. Il più delle volte si metteva sopra un grande sasso in modo che non potesse respirare. Poi si inseriva nello snodo di una zampetta una cannuccia o una penna d’oca tagliata e lo si gonfiava, staccando così la pelle dalla carne. Con un coltello affilato si pulivano gli aculei, che venivano completamente eliminati sul fuoco. Si tagliava, si toglievano le interiora e si cucinava. Aveva una carne buonissima.

Posted

18 Aug 2021

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Angelo Capozzi



Foto dal web





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