La porta del passato

(Schiavone Michele)


Se i ricordi bussano alla porta della tua vita, falli entrare, ti doneranno attimi di intensa serenità.

Ero fermo, davanti a quella porta che si perdeva nel verde dell’edera, fra miriadi di ragnatele, simbolo di assoluto abbandono. Ancora conservava l’antico colore, anche se sbiadito dal sole e dalla pioggia che per anni avevano bussato inutilmente. Ero ritornato al mio piccolo paesino di montagna, dopo innumerevoli anni di lontananza. Niente più mi legava ad esso, mio padre e mia madre non c’erano più da circa cinque anni, ed erano gli unici che avevano avuto nostalgia di quel piccolo paesino, ai piedi della grande montagna. Se ora mi trovavo li, un legame ancora doveva esistere, anche se non riuscivo a capire quale fosse.

Ero arrivato quella mattina di dicembre in auto, dopo un lungo viaggio in aereo, per la promessa che avevo fatto a mia madre, di ritornare un giorno al paese natio, per portare un fiore sulla tomba della nonna. Ai margini del paese avevo dovuto fermare l’auto, era troppo grande per procedere nelle piccole stradine. Il freddo era pungente, il cielo però, era terso ed azzurro, di un azzurro che non vedevo da tanto tempo.

Mi infagottai nel mio caldo giaccone e cominciai ad incamminarmi giù per le stradine del centro storico. Cercavo nella mente antichi ricordi ad ogni angolo di strada e, man mano che mi addentravo, rivedevo i vicoli e le piazzette della mia gioventù. Ancora non avevo inserito la grande chiave nella toppa che dall’uscio vicino spuntò fuori un consunto viso di donna. Gli occhi che mi fissarono mi trasmisero una lieve tristezza ma il sorriso sdentato mi riempì di un’allegria impensabile.

“ chi vulite?”,aveva chiesto senza oltrepassare la soglia.

La fissavo senza rispondere, in quella casa, da piccolo, avevo fatto da padrone, e la commara Rosina mi aveva trattato come il figlio che non aveva mai avuto. Ma non poteva essere lei, erano passati troppi e troppi anni.

“ Sono Carmelo, il figlio di commara Emilia “.

Al sentire quei nomi aveva lanciato un piccolo urlo e, anche se malferma sulle gambe, aveva spinto la sua esile figura fuori della porta e mi aveva abbracciato allungandosi sulle mie spalle. Non mi ero sciolto da quell’abbraccio, avevo lasciato che il calore del suo piccolo corpo e l’odore del fumo del camino, di cui i suoi abiti erano intrisi, mi avvolgessero e mi portassero indietro nel tempo. Davanti a quel camino, con lei vicino, avviluppata su una piccola poltrona, stavo rivivendo i miei ricordi di fanciullo. La guardavo mentre mi chiedeva come stavo io, i miei figli e mia moglie, rimase sconcertata quando le dissi che non mi ero mai sposato. Non riuscivo a darle un’età anche se di anni ne doveva avere tanti.

“ L’annu prossimo, faccio ciento “, mi aveva detto con voce esile.
Cento anni, quante storie e quanti ricordi doveva racchiudere quella piccola testolina di donna. Io ne avevo cinquanta e mi sembrava di essere vecchio e di avere tanti ricordi da non riuscire mai a riviverli tutti. Con lei vicino, i ricordi stavano facendosi largo nella mia mente. Mi lasciai trasportare dal tiepido calore del fuoco e dalla tenue voce di commara Rosina e mi rividi piccolo, in quella poltrona, mentre lei e mia madre impastavano la farina sullo schianaturo per mettere a cuocere il pane nel forno.
Mi sembrava di risentire nelle narici il profumo di quel pane, poi mi rividi ragazzino mentre, afferrato un caldo tarallo, correvo fuori della porta per andare nel vicolo a giocare con i miei amici.

I miei amici, i loro nomi li feci scorrere nella mente con la speranza che ad ogni nome, riuscissi ad abbinare un volto. Così non fu. Nicola, Peppe e Ciccio erano solo nomi, i volti non li rivedevo; un solo volto si materializzò nella mia mente, Rosetta, la mia piccola Rosetta. Era la figlia del direttore della scuola elementare, eravamo sempre cresciuti insieme, prima come vicini di cortile, poi come compagni di classe. Rosina era una splendida bambina che diventò con il passare degli anni una bellissima ragazza. Quando in terza media riuscii a dichiararle il mio amore, lei mi disse candidamente. “Finalmente ti sei deciso “. Era molto risoluta Rosetta e forse mi aveva da sempre conquistato proprio perché io, di rimando, ero timido ed impacciato. Eravamo un bel gruppetto di piccoli pesti. In paese per noi ragazzi non c’era niente per divertirci, per cui i modi per passare il tempo li inventavamo di giorno in giorno. Quante volte avevamo legato, l’una all’altra, le porte dei nostri vicini con uno spago e dopo aver bussato ad esse, ci eravamo divertiti a guardare quel tira e molla pieno di “fetentoni”,” se vi piglio”.

Rivedevo tutte le volte che ci eravamo recati sulla montagna in cerca di castagne, di funghi e di legna e la soddisfazione di portare in paese ciò che avevamo trovato per mostrarlo a tutti.

“ Carmelo, ti ricordi di compare Angelo “.

La voce di commara Rosina mi aveva riportato alla realtà.
Certo che mi ricordavo di suo marito, mi aveva sempre messo soggezione con il suo burbero carattere.Ogni volta che entravo in casa sua mi accertavo che il marito non ci fosse. Se compare Angelo era presente non si poteva correre, non si poteva alzare la voce, non si potevano prendere i biscotti senza ordine e non si potevano poggiare i piedi sulla poltrona. Era impossibile entrare da commara Rosina quando c’era il marito.
Ora, però, dovevo lasciarla. Dovevo aprire finalmente la porta della mia casa.

La chiave girò con una certa difficoltà, un flebile cigolio mi introdusse nel grande stanzone d’ingresso. Attaccai il contatore, ma la luce oramai era staccata. Accesi allora alcune candele che si trovavano sul camino ed aprii le finestre. Con la coda dell’occhio vidi un piccolo insetto correre veloce in un buco nell’angolo della stanza, poca cosa rispetto allo stato di abbandono. I miei genitori erano emigrati in Australia e mi avevano portato con loro quando avevo quindici anni. Erano circa vent’anni che la casa era chiusa, c’erano venuti l’ultima volta, tanto tempo fa, i miei genitori, mentre io avevo preferito restare in Australia. Tutto era ricoperto da tanta polvere; riconobbi ad uno ad uno tutti i mobili della nostra casa. Di sopra c’erano le camere da letto e soprattutto c’era la mia cameretta. Salii con in mano una candela, aprii la porta ed entrai. Il mio letto, il mio piccolo armadio e lo scrittoio che mi aveva dato nonno Carmelo, tutto era come lo avevo lasciato tanti e tanti anni addietro. Mi lasciai cadere sulla sedia con un nodo alla gola. Aprii la finestra come se volessi far entrare aria nuova in quella stanza. Andai verso lo scrittoio ed aprii un cassetto. Una piccola scatola di cartone si presentò ai miei occhi.

Tolsi il coperchio e un pezzo della mia vita, dimenticato lì per la fretta della partenza, riprese a vivere.


Foto e consunti foglietti di carta. Ognuno di essi era un piccolo capitolo dei miei primi quindici anni:
Io da piccolino, seduto su un gradino davanti casa, mamma e papà intenti a insaccare le carni di maiale;tanti foglietti di quaderno e la foto di tutta la classe di quinta elementare. Cercai il mio volto e riconobbi anche quello della mia Rosetta, degli altri ricordavo pochi nomi. Sui vari foglietti di carta trovai il ricordo del mio amore per lei. Le avevo dedicato delle piccole poesie e dei pensierini che, con il passare degli anni, dalle elementari alle medie erano diventati degli inni all’amore.

Ero arrivato con la voglia di vendere quella casa e di troncare definitivamente ogni legame con quel piccolo paesino, quasi un borgo di montagna, ma ora erano i miei ricordi che mi stavano imprigionando e mi stavano riportando indietro nel tempo. Più questo accadeva e più mi sentivo stranamente felice. Una smania indicibile mi aveva preso, dovevo ritrovare i miei amici di gioventù semmai fossero rimasti in paese e principalmente volevo rivedere Rosetta. Non riuscivo ad immaginare il suo volto attuale, ma non mi persi di coraggio. Richiusi la porta alle mie spalle e mi incamminai verso l’unica piazza del paese. Il bar era sempre al solito posto, la barberia non esisteva più ed il municipio aveva cambiato un po’ il suo volto. Recarsi al bar fu l’unica scelta che ebbi, in quella fredda giornata, per vedere una qualche persona.

I tavolini nella piccola saletta interna erano tutti occupati da paesani attempati che si sfidavano a briscola o a scopone.
Trovai un piccolo tavolino libero e mi sedetti ordinando un caffè. Il barista, un signore di mezza età, non tardò a portarmi il caffè e a rivolgermi la solita domanda di rito.

“ siete forestiero?, non vi ho mai visto in paese”.

“ sono forestiero, nel senso che vengo da lontano, ma sono di qua”.
Per lui fu normale spostare una sedia e sedersi al mio tavolo. Poi fu tutto un susseguirsi di nomi, soprannomi, e di ricordi.

“ sei Carmelo, Carmelo Nigro , io sono Ciccio Petrone “

Ciccio, il mio compagno di banco. Lo abbracciai guardandolo in volto, cercando in esso l’amico del passato.
Fece mettere al banco un ragazzone ed insieme cominciammo il cammino, nei ricordi della nostra gioventù. Ripercorrere quegli anni mi stava mettendo addosso una serenità inspiegabile, quell’uomo tranquillo che non aveva fretta di salutarmi per dedicarsi alle sue cose, cozzava con il modo di vivere frenetico che mi aveva sempre posseduto. Stavo a poco a poco innamorandomi di quel posto, ora ricordavo che i miei primi quindici anni di vita erano stati stupendi, colmi di felicità e di tanta allegria.

Chiesi notizie di Nicola e Peppe e mi rispose che erano andati via dal pese per lavoro e che tornavano solo in estate per la festa patronale, in ultimo e cercando di non far trapelare una certa emozione, chiesi notizie di Rosetta, la figlia del direttore scolastico.

“ Rosetta Bruno, certo che la ricordo, ma….”

Così, così, così. La mia Rosetta, la bambina e la ragazza che aveva riempito la mia fanciullezza e la mia gioventù, aveva preferito lasciare per sempre non il paese, ma la vita. Non si era mai sposata e, rimasta sola, si era man mano lasciata andare, fino a togliersi la vita in un freddo pomeriggio del novembre di quattro anni addietro. La mia Rosetta, dal carattere forte e risoluto, non aveva avuto il coraggio di affrontare la vita.
Avevamo continuato a parlare per un po’ di tempo poi lo avevo lasciato ai suoi affari promettendogli di tornare il giorno dopo.
Mi incamminai verso il piccolo cimitero per porre in atto la promessa fatta a mia madre. In mano non avevo solo un fiore, ne avevo due, uno era per la mia Rosetta.

Restai in paese ancora per tre giorni, furono i giorni più belli che avessi passato negli ultimi anni. Ogni istante, con l’aiuto di Ciccio, ritrovavo in paese un volto della mia adolescenza. Con loro rivivevo gli episodi e la spensieratezza di quei tempi. Ogni ora cresceva in me il legame che inconsciamente avevo con quella terra, con la mia terra d’origine. Nella mia mente si fece sempre più largo l’idea di rinsaldare quel legame e di tornare in paese sempre più spesso, con la voglia di trovare la serenità che, nel luogo dove vivevo, mi mancava da molto tempo.La casa non l’ ho più venduta, anzi, ho dato mandato a Franco il muratore, l’unico in paese, di rimetterla un po’ a posto.
I lavori però devono essere ultimati per il mese di agosto, c’è la festa del Santo patrono ed io non voglio mancare.