Il mare proibito

(Cuppini Alessandro)


Nuvole buffe salgono lentamente nel cielo, al largo, tronche di sopra e di sotto come tagliate con un coltello, e solo ai fianchi grasse di molli e spumeggianti rigonfi: le nuvole dell’estate siciliana, senza testa né gambe, come schiacciate tra due coperchi. Sembrano incudini.
Navigano separate, ma tendendo a congiungersi in un unico nuvolone pesante e statico, che si immobilizza sull’isola coprendo con la sua ombra le piazze, i vicoli e le case di Ortygia.
Tutti alzano lo sguardo vedendo sparire il sole. E notano la nuvola per la prima volta. Nessuno tranne Dionisio ha veduto come quell’enorme nuvola s’è formata sul mare.
Come si fa su un’isola a proibire il mare?
Eppure a Ortygia il tiranno ha proibito per legge di occuparsi del mare: né andarci né parlarne né guardarlo.
Veramente quest’ultimo divieto fu mitigato dall’avverbio possibilmente, aggiunto di proprio pugno dal tiranno quando, rileggendo il testo della legge, si era reso conto che si trattava di una pretesa eccessiva per un isolano quella di non guardare mai il mare. E dove, e cosa avremmo dovuto guardare noi ortygiani, allora? Notte e giorno il nostro ombelico?
Così i primi tempi un’occhiata furtiva al mare di tanto in tanto la gettavamo. Fino a quando uno fu arrestato perché potendo guardare la moglie al suo fianco aveva rivolto lo sguardo al mare, contravvenendo la legge, come diceva la sentenza di morte. E allora, dato che c’è sempre, anche su un’isola, qualcosa da guardare che non sia il mare o il proprio ombelico, ogni ortygiano si astiene dal rivolgere anche solo un lampo d’occhiata al meraviglioso mare che circonda l’isola.
All’inizio l’esercizio era difficile alquanto, perché un’abitudine secolare è dura da sconfiggere; ma + solo questione di volontà, e dopo un po’ ci venne automatico alzando la testa rivolgere sempre gli occhi verso l’interno dell’isola, da qualunque parte uno si trovasse.
La legge non vale per gli stranieri, naturalmente, e quando uno di loro arriva in città e chiede a qualcuno di noi:
Scusi. Da che parte è Capo Mesogios?, che è poi la punta dall’altra parte della baia di Ortygia, quello risponde guardando per terra:
Scusi, signore, non so proprio. Non sono pratico.
Insomma: il mare ormai è per tutti noi come se non esistesse, escluso dalle vicende della vita e persino dai nostri pensieri. Se lo sguardo casualmente lo sfiora, immediatamente si ritrae, gli occhi si abbassano cercando di dimenticare. Se è in burrasca o calmo, azzurro cupo o sfrangiato di spuma… chi lo sa più? Né lo vogliamo sapere, tanto è il rispetto, interessato, si capisce, per la legge.
Anche l’abbigliamento è stato influenzato dalla legge: a Ortygia malvisti sono i sandali, i calzoni a zampa di elefante, le giacche e i berretti alla marinara, gli zoccoli e tutto ciò che può richiamare l’idea del mare.
Ma non è tutto: qualcuno, fingendo deliberazioni familiari fasulle, ha murato le finestre a mare, per non essere tentato.
Veniva una brezza che procurava il mal di testa a mia moglie…, oppure: Saliva il puzzo dei ricci che marciscono sulla scogliera…, sono le frasi ricorrenti di scusa, sussurrate agli amici.
Questi padri di famiglia vivono ora più sereni, additati ad esempio dagli scherani del tiranno.
Un tale si è perfino fatto costruire un carro, di quelli che nella nostra madrepatria chiamano àmaxa, ed ha acquistato due cavalli per trainarlo. Cose mai viste da noi. Mai e poi mai un simile carro potrà procedere per i nostri stretti vicoli, mai i cavalli potranno lanciarsi nelle corse sfrenate per cui hanno sviluppato in millenni di evoluzione garretti così robusti. Ma il mare ai sensi della legge non esiste, e attorno abbiamo una pianura al suo posto. E dunque un simile carro è molto adatto alla situazione. Gli scherani hanno approvato e additato ad esempio; e si dice che Dionisio si sia commosso nel vedere una simile docilità ai suoi detti. Quel tale è felice per l’approvazione del tiranno, e tutte le sere gira con la sua àmaxa in su e in giù per la piazza, da cui peraltro non può allontanarsi, inseguito dall’invidia di molti.

E pensare che mai come quest’anno il mare è stato così vivo e presente nei miei pensieri.
Si dice che certe notti di luna nuova, negli angoli di certi bui cortili, qualche anima perduta venga a mormorare notizie scabrose. Non si accendono lucerne, in quei cortili, per non dover dimenticare il volto del messaggero. Si dice che questi parli sottovoce di cose proibite, come la pesca di una murena poco fuori la scogliera di Artemissi le cui carni, cucinate di nascosto, erano deliziosamente tenere; come gli immensi banchi di tonni che due notti fa sono passati al largo, diretti verso sud; come la spaventosa proliferazione di acciughe, non più pescate da anni, tra Ortygia e la terraferma. Gli altri ascoltano, seduti nel buio della notte, ignorando il vicino, senza parlare per non tradirsi con l’accento o il timbro della voce.
E anche nel segreto delle nostre case, nel corso di una cena tra amici, a volte qualche parola, qualche discorso spezzato esce di sorpresa, con prudenza, da bocche di solito più serrate delle porte dietro cui ci chiudiamo.
Anni fa, inizia Nikos, un amico.
E si ferma lì, in ascolto. Tutti noi ci giriamo verso di lui, stupiti ma anche inconfessabilmente speranzosi.
Anni fa qui ad Ortygia, riprende rassicurato dal silenzio che ci circonda, ricordo che mentre camminavo verso…
Esita a pronunciare la parola proibita.
…verso il porto, mi sentii chiamare.
Da chi?, chiede Kàllistos.
Era una voce bassa e profonda, un oscuro sussurro: ’ελεΰθερος, diceva. Libero. ’Ίσθι ’ελεΰθερος, sii libero.
Chi era?
Mi voltai di colpo. Mi sembrava che la voce venisse da non più di quattro cubiti dietro di me, eppure non vidi nessuno.
Nikos tace un attimo, poi aggiunge:
Ma è stato tanti anni fa…, quasi per mettersi al sicuro.
Noi ascoltiamo e beviamo le sue parole golosamente. Non ha detto tutto quel che voleva dire, né lo ha detto esattamente, questo ci è chiaro. Per motivi suoi, che comprendiamo, ha taciuto qualcosa di importante. Nessuno scherza più, nessuno dice per esempio:
Che? Eri ubriaco, Nikos? O non eri piuttosto nel vicolo dell’etera Glykèria?
Tutti lo guardiamo e aspettiamo in silenzio. A Kàllistos gli occhi brillano; è impaziente, insiste:
Dov’è successo esattamente? In casa tua?
Ma non ti ho detto che andavo verso… che ero fuori?
Kàllistos sorride e solleva appena una spalla, dimostra di non credere, come se Nikos avesse riferito questo dettaglio per depistarci.
Eri fuori, dunque. Nel vicolo, in piazza, nei prati? In campagna?
A Ortygia non ci sono né prati né campagna, Kàllistos prende giro noi e la nostra prudenza. Getta occhiate circolari in giro, alludendo, sottintendendo. Ma noi tutti, lui compreso, sappiamo perché Nikos si comporta così.
Sì, proprio così, risponde Nikos seccato. In campagna, ero in campagna.
Ora ci fissiamo a vicenda, e l’espressione di ognuno è seria e compresa.
Da una settimana infatti, la notte, quando tutto dorme, quando le strade sono vuote e il vento è incerto se spirare da terra o… dall’altra parte, mi è parso di udire qualcuno sussurrare qualcosa, dalla parte… del mare. Non una volta sola, ma più volte e per più notti. Che cosa poteva essere? Non uomini, nessuno rischierebbe così con le ronde del tiranno sempre in giro per tutta l’isola. Non bestie, ché le bestie non sussurrano. Un incanto, una malia? Siccome non osavo parlarne con nessuno, né in famiglia né fuori, avevo finito per convincermi che era uno scherzo della mia mente: da quando il mare è proibito, la fantasia lavora su di esso come non mai. Poteva benissimo essere che quei bisbigli fossero fenomeni naturali che anche in passato, quando il mare era permesso, si verificavano, ma a cui noi o non davamo peso o non sentivamo perché mica passavamo le notti con le orecchie dritte ad ascoltare. Né si apriva, allora, l’unica imposta non inchiodata per ammirare a notte fonda la cosa proibita, per respirarne il profumo, per ascoltarne il mormorio, per piangere con lui sull’antica amicizia, e la separazione.
E questa sera Nikos, anche se con riluttanti allusioni, ha avuto il fegato di parlare, ha cercato di rompere il cerchio.
Ha espresso un pensiero comune, con il misto di nostalgia e insicurezza dei profughi che ormai siamo nella nostra stessa città. Malefica, ora, e ostile.
Se davvero quell’episodio gli fosse capitato anni fa, ce ne avrebbe parlato allora. Dunque gli è capitato in questi giorni, come a me, ed anche, viste le facce che scorgo intorno, come agli altri amici, stupefatti per l’audacia di Nikos nel parlarne e della loro nell’ascoltarlo.
Il silenzio grava penoso. È Kàllistos, alla fine, che lo rompe:
Ci dovremmo vergognare, però.
È serio, i suoi occhi neri mandano lampi.
Ci conosciamo da sempre, siamo tutti amici.
Si alza di scatto, come punto da una vespa. Ma non è una vespa, è un pensiero improvviso, ingiusto ma giustificato, che lo punge:
Oppure è di me che non vi fidate?
No, che dici?, fa Chrysaphos. Vergognarsi? La sua sorpresa è simulata. Vergognarsi, dici? E di che? Cosa vai pensando?
Vedo il disprezzo negli occhi di Kàllistos. Si alza, è serio, ci guarda con distacco:
‘Eis Korakas!’ Fanculo. Me ne vado.
Mi alzo anch’io, lo seguo. Sono il padrone di casa, cerco di fermarlo:
Ma dove vai, Kàllistos? Aspetta…
Inutile, è già fuori, sentiamo i suoi passi sulla scala e poi in strada.
Nella stanza è calato il silenzio. Siamo avviliti, perché sappiamo che Kàllistos ha ragione. Ma il timore alberga da anni nei nostri cuori. Che bello sarebbe poter essere sinceri come un tempo, parlare lealmente, a cuore aperto. E invece no; perfino qui, tra amici sicuri, una vile sudditanza ci incatena, perfino tra noi che ci conosciamo da quando bambini andavamo insieme a caccia di granchi sulla scogliera di Artemissi.
E ora anche Nikos, dopo quelle poche spezzate parole che ci avevano dato tanta speranza, è tornato silenzioso, rientrando nella solita menzogna dallo sguardo obliquo:
Chissà cos’aveva addosso Kàllistos, stasera, dice con tono leggero. Cerca di rompere il velo di imbarazzo. L’ho forse offeso, Alèxandros? Ho forse detto qualcosa che non dovevo?
No, rispondo. Non hai detto invece qualcosa che dovevi. E questo gli è dispiaciuto.
Lo guardo dritto negli occhi: niente da fare, la finestra che si era aperta con un minuscolo spiraglio ora è richiusa a doppia mandata.
Qualcosa che…. Cosa?
Ancora falsità, per Zeus, ancora finte, simulazioni, bugie dette con gli occhi spalancati dell’innocenza! A cosa siamo ridotti! E sento in gola un amaro sapore di sconfitta, che mi resta attaccato al palato come quando si beve un kikeon cattivo.
Che cosa avrei dovuto…
Taci!, ringhia Chrysaphos.
E Gordiàs aggiunge:
Nulla… non dovevi dir nulla, Nikos.
Tutti guardiamo Gordiàs. Anche lui vuol forse provocare? Finiremo per non fidarci nemmeno di Gordiàs, del mite, dolce, devoto Gordiàs?
Uh! Che odore cattivo fanno le tue lucerne, Alèxandros!, fa Trichinas per cambiare discorso. Apro un po’ la finestra, eh?
Si alza e mi guarda mentre si avvia verso quella non inchiodata.
No!, dico, un po’ troppo precipitoso. Quella no. Sorrido. Un cardine è rotto, ti cadrebbe addosso. Apri quell’altra piuttosto.
E indico la finestra che da sulla strada.
Trichinas si risiede. Non ha aperto, non ce n’è bisogno, non c’è né fumo né odore cattivo. Le lucerne funzionano benissimo. Anche questo è un ridicolo, patetico pretesto.
Sapete cosa vi dico, amici?, dice Gordiàs. Non ne siamo degni.
Ci guardiamo l’un l’altro.
È vero: quel sapore amaro che sento in bocca è il disprezzo del mare.