Figlio di un cappello (Montevarchi, 1933)

(Colacrai Davide Rocco)


Ero figlio di dita nodose ed occhi dal colore del cielo
in cui si corteggiano cirri d’estate,
di poche parole,
pesanti quanto il ripetersi delle azioni,
sempre le stesse,
a sussurrare la vigilia fragile di un sogno
nel suo comparire a rilento dagli incavi della vita,
che serbavano il sudore del giorno
e il digrignare costante del cuore
a comporre rughe di rosari disattesi;
ad un tozzo di pane
corrispondeva la rinuncia ad essere donna
e da donna ad essere madre,
il dolore in bilico di un’ombra,
la paura d’incespicare,
il biancore dell’attesa sul labbro,
orme a naftalina,
e tutto annodato al filo indefinito della fame;
l’arte d’imbastire si tramutava in variazioni di forma
a levigare il confluire di un’ora in un’altra
e la raccolta delle stagioni
in un cappello.

Conosceva, San Giacomo , forse, il silenzio dei nostri nomi?

Ero figlio di un’abitudine zuppa d’acqua di pioggia,
di un amore impagliato
nell’avanzare di un fischio d’acciaio
al richiamo della fabbrica madre
a segnare l’istante imperfetto di un respiro
o di un addio.

Vivevamo in uno spazio nudo d’ossa al fumo dal colore di occhi rassegnati.