Parrucche e dentiere

(Cuppini Alessandro)


Quando lo conobbi era già vecchio. Dalla prima volta che era comparso nella valle, prima della guerra, erano passati ormai molti anni: allora girava a piedi di paese in paese, con un sacco in spalla in cui aveva tutto quel che gli serviva. In séguito si procurò un carro con due ruote di gomma e le sponde basse, tirato da un ronzino dal pelo rosso. Faceva soprattutto il barbiere, ma tagliava anche gli zoccoli troppo cresciuti e affilava i coltelli, e all’occorrenza sapeva fare anche lo spazzacamino. A Natale aiutava a fare il maiale, e quando era tempo di vendemmia lo si vedeva girare per i campi ammirando le poppe delle donne, annusando il profumo della campagna e offrendosi come aiuto.
Dopo la guerra si comprò una vecchia Zündapp, un sidecar residuato bellico tedesco, e con quello batteva la valle da Modena in su. E fu in quegli anni che lo conobbi.
Veniva da noi una volta ogni due mesi. Fin da lontano si scorgeva il nuvolone di polvere che galoppava lungo la strada bianca come un minuscolo mulinello agitato dal vento. Poi si udiva il tramestio ritmato del vecchio pistone, e allora noi bambini correvamo sulla sponda del torrente per il momento tanto atteso: il barbiere prendeva lo slancio, si buttava nel guado a tutta forza sollevando schizzi colossali di acqua e fango e atterrava sulla nostra sponda urlando Aléééé!, il viso raggiante, il fazzoletto al collo e le falde della giacca che svolazzavano insieme nel vento. Portava un berretto di pelle da aviatore dentro il quale raccoglieva i capelli insolitamente lunghi e trascurati per essere un barbiere, e degli occhiali di gomma dai vetri gialli che gli avevano dato come sconto assieme alla moto e lo facevano assomigliare ad un enorme moscone. Nella gondola del sidecar e sul posto del passeggero alle sue spalle portava la valigia e tutti i suoi attrezzi, in particolare una cassetta magica che aprendosi diventava un tavolo da barbiere. Dalla base venivano fuori le gambe pieghevoli, dai cassetti uscivano rasoi, forbici e pettini lerci, e un lenzuolo macchiato di sangue vecchio che a lavarlo non veniva più via. E infine la lucida macchinetta per tosare, che tra i denti aveva avanzi di capelli della precedente tonsura e a volte qualche uova di pidocchio. Il barbiere piazzava la Zündapp sulla piazza davanti alla chiesa, metteva un giornale sul tavolo, il lenzuolo sulle spalle del cliente e cominciava a ticchettare, con le forbici e la lingua, tosando e raccontando le novità che aveva raccattato nei paesi vicini.
Parlava piano, con voce fresca e zampillante come il fruscio di una sorgente, con la suadente e angelica spudoratezza con cui soltanto i barbieri sanno parlare dei casi umani. Questa sua umanità si manifestava evidente; i barbieri, che sono allo stesso tempo maestri e consiglieri, conoscono i segreti dei corpi che invecchiano, delle vene che si raffreddano, dei capelli che perdono il lustro, dei tendini che si allentano, delle ossa malandate che scricchiolano risentite, delle gengive sdentate, dei fiati maleodoranti, dei colli segnati da rughe e delle labbra esangui. E a volte quindi forniva gratis qualche consiglio di erboristeria, assieme alla raccomandazione:
Non dirlo al farmacista, però.
Era una fonte mai deludente di storie e notizie da tutta la valle. Era lui che ci aveva avvisato che quelli di Fanano ci volevano sfidare a calcio alla festa di S. Giacomo, e che intanto stavano trattando per arruolare per l’occasione Seghizzi detto Fedina, una mezzala che aveva fatto un provino per il Bologna di Cappello. Era lui che ci aveva informato che lo stallone di Fiatàzz di Serrazzone aveva dato prova di un vigore inimmaginabile. Era lui che aveva portato i biglietti amorosi di Padlàn all’Elvira del nostro paese, e sempre lui l’aveva trasportata di nascosto a Montecreto quand’era scappata di casa per andarsene a vivere col moroso. Tutti lo sapevano, anche se quel gentiluomo del barbiere lo negava anche adesso che l’Elvira era madre di due stornelli di un metro e ottanta e si faceva vedere tranquillamente nel nostro paese che l’aveva perdonata da tempo. Del resto il paese perdonava qualunque cosa se c’era di mezzo l’amore, anche se a lieto fine.
Il barbiere quindi si prestava a fare da postino, ma anche a trasportare notizie, avvisi, piccoli oggetti e persone. E faceva della sana maldicenza, secondo il costume antico di tutti i barbieri, con il vantaggio che portava novità assolute nella nostra piccola comunità di montagna, lontana dalla capitale Modena.
Tutti lo conoscevano: del resto aveva tagliato i capelli a mio nonno, a mio padre e ora a me. E a tutto il paese.
Un maestro solo, un prete solo, un barbiere solo, sentenziava il mio amico Achille il saggio, parafrasando la nota frase hitleriana Ein Volk, ein Reich, ein Führer! E concludeva ironico: Che piacevole senso di continuità!
Quando arrivava, mio padre mandava noi bambini di casa a raparci tutti in una volta, per risparmiare. I più piccoli strepitavano e si dibattevano sulla sedia. Ma il barbiere li teneva forte con una mano, mentre con l’altra passava la macchinetta poco affilata che pizzicava, in un sentiero largo dalla fronte alla nuca. Poi lasciava andare la vittima. Il bambino scappava via, ma dopo un’ora, spedito indietro da un calcio del padre o dalle prese in giro degli amici, tornava chiedendogli di terminare il lavoro.
A Natale il barbiere distribuiva ai grandi dei calendarietti profumati con un segnalibro dorato. Io avevo avuto modo di dare un’occhiata di nascosto a quello che un anno aveva portato a casa mio padre: ogni mese aveva una ragazza in costume da bagno, anche in inverno. Le feci vedere anche al mio amico Achille il vizioso: erano una più bella dell’altra, tutte ci facevano sognare.
Il barbiere aveva avuto un paio di momenti di gloria indimenticabili. Il primo capitò alla fine della guerra quando gli avevano trascinato sulla piazza del paese la Rosi che era stata l’amante di un capetto fascista fino a una settimana prima.
E lui, cieco strumento del destino, l’aveva rapata a zero, come testimoniato da un ritaglio ingiallito della Gazzetta di Modena che teneva appiccicato al tavolo pieghevole. Si vedeva lui che brandiva solennemente pettine e forbici, e la Rosi, una bella donna dal seno abbondante, trattenuta da un paio di partigiani ridenti. La testa ce l’aveva come una palla da biliardo, lucida, che contrastava con quell’ombra di baffetti che aveva.
Se ha un po’ di peluria sul labbro di sopra, sentenziava Achille l’esperto, non proprio dei baffi, figuriamoci!, solo un’ombra, tutto lì, è un buon segno che ti dice che è donna focosa, con un bel boschetto sulla collina del paradiso.
Il secondo e più importante momento di gloria fu quando un anno dopo risolse il problema dei topi nel campo di Spómma.
Il campo era abbandonato da anni. Convolvolo selvatico, loglio e gramigna l’avevano invaso e ricoperto di un minaccioso manto di selvaticità. Ai bordi, rovi inestricabili erano prolificati fino all’inverosimile, ospitando nidi e tane di bestiole ed insetti. Intere tribù di topi sopravvissuti al veleno dei campi adiacenti vi avevano trovato rifugio e da lì facevano incursioni negli altri appezzamenti.
Più di una volta la guardia municipale su incarico del sindaco si era rivolta a Spómma chiedendogli di lavorare il campo o almeno di sterminare i topi, ma lui, tutto impegnato a mangiarsi l’eredità del padre in vino e donne, aveva sempre fatto orecchie da mercante.
Finché una domenica che era arrivato il barbiere, mentre faceva barba e capelli a mio padre il discorso cadde sul problema dei topi del campo di Spómma. E lui affilando il rasoio su una vecchia correggia di cuoio che portava appesa al manubrio della Zündapp disse senza esitazioni che sapeva lui come fare, perché si ricordava che anni prima un agronomo di Vignola, a cui aveva portato una formaggella da Zocca, gli aveva detto che ai topi non piacciono le fave. E suggerì a mio padre di far circondare il campo di Spómma con una striscia coltivata a fave:
Un metro, un metro e mezzo, non di più. Secondo me è sufficiente.
Sembrava molto sicuro del fatto suo, ma non fu facile convincere i contadini proprietari dei campi circostanti ad adottare quel rimedio che pareva una solenne presa in giro. Alla fine si accordarono per compiere quel tentativo e sacrificare una striscia del loro terreno piantandola a fave.
Fu un successone. Fin da quando spuntarono i primi germogli, i topi vinti da un indecifrabile incantesimo non avevano più osato uscire dal campo di Spómma. Dove peraltro si erano riprodotti con tale slancio che la fame, l’affollamento e la discordia avevano fatto loro spuntare delle lunghe e taglienti zanne, trasformandoli così in predatori che si sterminavano a vicenda. La notte dal campo provenivano i ruggiti di vendetta e i lamenti agonici dei caduti. Le fave maturate non furono raccolte da nessuno, nell’idea che fossero inquinate dalle feci e dall’orina di quella masnada di assassini.
Il mio amico Achille il tuttologo disse che la fava aveva creato nel campo un circolo chiuso, senza più alcuna possibilità di provvidenziali mutazioni.
Ararono e ripiantarono le fave per un secondo anno, e il problema fu risolto.

Un mese di punto in bianco il barbiere non venne più, e mia madre ritornò all’antico rapandoci tutti col taglio a scodella. L’estate successiva venne da Pavullo un barbiere stanziale, che aprì una bottega in un locale preso in affitto da don Dario, proprio sotto il campanile. La domenica quando faceva la barba ai clienti durante la messa si doveva fermare perché lo scampanio del doppio faceva vibrare ogni cosa nella bottega, compresa la sua mano.
Fu lui che ci raccontò che il barbiere della Zündapp era stato vittima di un incidente: mentre passava il torrente in un paese più a valle, con l’immancabile Alééé! gridato a squarciagola, era scivolato sul fango precipitando lui e la moto nel salto che il torrente faceva subito sotto il guado. Forse se la sarebbe cavata se il tavolino pieghevole, sbalzato dalla gondola del sidecar, non gli si fosse avventato addosso schiacciandogli la testa sui sassi come fosse una noce.

Mio padre non era vanitoso, ma quando vide i primi capelli restare attaccati al pettine capì di essere condannato ad un inferno il cui supplizio è inimmaginabile per chi non lo subisce. Il primo provvedimento che prese fu quello di leggersi, e per lui che aveva fatto appena la terza era fatica grossa, parecchi numeri de L’Almanacco dell’Agricoltore, perché aveva sentito dire che la crescita dei capelli era in correlazione diretta coi cicli dei raccolti. Cominciò a fare calcoli astrusi per decidere il giorno esatto in cui era più conveniente andare a farsi tagliare i capelli. E così poteva succedere che non andasse dal barbiere per mesi e mesi finché un bel giorno si alzava, avvisava con solennità la famiglia intera, e scendeva in paese per la cavedagna, la chioma residua ondeggiante sulla spalle. Tornava dopo un’ora che non lo si riconosceva, pelato com’era:
Così si rinforzano, no?, spiegava a noi bambini stupefatti.
Non ottenne gran che, in realtà, con questo primo rimedio. Allora cominciò a ritagliare tutti gli annunci per calvi che trovava sul giornale, di quelli con due foto dello stesso uomo, prima pelato come una boccia e dopo più peloso di un leone. E si affidò a lozioni e pozioni miracolose, sopportando notevoli sacrifici pur di difendere dalla devastazione vorace ogni centimetro quadro di cranio, sempre senza risultati apprezzabili. Se si esclude un urticante e fetido eczema, definito dalla Norma che lo curò scabbia boreale per la luminescenza visibile nell’oscurità, che riuscì ad eliminare solo dopo giorni di cataplasmi di erba pulicaria.
Finché un giorno tradì il barbiere stanziale, con gravissimo suo scorno, per uno ambulante, il primo dopo quello della Zündapp, capitato in paese quasi per caso. Quello tagliava i capelli solo quando la luna entrava nel quarto crescente. Ma aveva appena dimostrato di avere la mano fertile quando un bel giorno non lo si vide più. Si scoprì che era uno stupratore di bambine ricercato da tempo dai Carabinieri che finalmente l’avevano beccato sulla piazza di Vignola.
Un giorno Achille disse a mio padre che sapeva che era passato da Lama un tale che fabbricava e vendeva parrucche con capelli naturali. Costavano parecchio, ma erano perfette. Papà si informò e andò al mercato di Lama, dove quel tale gli prese misura del cranio e colore dei capelli e gli disse di tornare di lì a un mese con la testa rasata a zero.
Ci andò, e noi per tutto il giorno lo aspettammo curiosi. Quando lo vedemmo salire la cavedagna che portava a casa nostra, il suo sorriso illuminava tutta la valle. Aveva ricuperato la chioma che era l’orgoglio dei suoi anni giovanili, e insieme tutta la sicurezza dell’uomo in pace con sé stesso e col mondo. La parrucca era così simile ai suoi capelli originari che lui stesso diceva di temere che gli si alzasse sul cranio con i cambiamenti di umore, quando sentiva crescere la pelle d’oca o sentiva freddo. Tuttavia non riuscì mai ad abituarsi all’idea di portare in testa i capelli di un morto.
Achille che era un filosofo e sapeva come prendere le persone un giorno gli disse:
Dovreste essere ben contento,voi. In fondo la cupidigia della calvizie non vi ha dato il tempo di conoscere il colore dei vostri capelli bianchi.
Di lì a due anni uno sfaccendato che usciva ubriaco fradicio dall’Osteria del ponte gli si avvicinò barcollando, e di botto davanti a tutti gli sollevò il parrucchino, dicendo:
Veh che bel pelatone!
Poi glielo riabbassò sul cranio e si allontanò prima che papà potesse reagire.
Quella notte si fece tagliare dalla mamma le ultime misere pelurie sulla nuca e accettò sereno il suo destino di calvo totale. E la mattina si insaponava non solo il viso ma anche le parti dove rigermogliava la peluria, e si rasava il tutto.

Altro problema a cui gli ambulanti diedero il loro sostanziale contributo fu quello dei denti di mio zio Cesare, che a ventotto anni si ritrovò a dover metter su felicemente e senza rimpianti una bella dentiera.
Lui diceva che la sua serenità derivava da una delle nostalgie della sua infanzia, forse la più commovente, quando a cinque anni aveva visto il mago ventriloquo di un circo di passaggio togliersi le due mandibole e lasciarle parlare da sole su un tavolo, mentre lui vagabondava biascicando senza denti tra le file dei bambini sbigottiti.
Tutto il guaio di zio Cesare era cominciato dieci anni prima per via del lavoro malfatto da un dentista girovago che aveva deciso di applicare rimedi radicali ad una comune infezione. Questo tizio passava di paese in paese con un trapano a pedale. Di anestesia non se ne parlava nemmeno, se si esclude la grappa che ognuno doveva portarsi da casa e appoggiarne un sorso sul dente addolorato al momento di accomodarsi sulla sedia, per addormentarlo. C’era chi avendo adottato questo sistema casalingo di anestesia già in sala d’aspetto arrivava brillo quand’era il suo turno, il che non guastava.
Se ci si voleva risparmiare un po’ di dolore, il trucco era di presentarsi allo studio dentistico sulla piazza il prima possibile, quando la gamba era ancora fresca. A fine giornata, passata sempre in piedi, la stanchezza affiorava nel dentista e la ruota girava sempre più lenta prolungando l’agonia.
A zio Cesare presentatosi per ultimo quando il sole già calava sulla piazza del paese, il dentista ambulante tolse sei denti. Quando lo seppe la Norma inorridì:
T’avrei curato io con le radici di angelica odorosa senza cavartene neanche uno!
Troppo tardi. Dopo quella strage infame il terrore del trapano a pedale aveva impedito a zio Cesare in séguito di farsi curare gli altri malandati molari, finché il dolore fu tale che fu costretto a recarsi da un altro dentista girovago che era apparso ultimamente alternandosi al primo.
Questo era una specie di gigante che girava con un gabinetto dentistico completo racchiuso in due sacche che portava a tracolla. Sembrava un commesso viaggiatore del terrore. Arrivava, montava la sua attrezzatura e aspettava i clienti. Stavolta zio Cesare fu sulla piazza all’alba, e fu il primo ad essere visitato. Con una sola occhiata il gigante stabilì che era meglio togliergli tutto, anche i denti che erano ancora sani, per metterlo una volta per tutte al riparo da ogni futuro tormento. Il suo business erano evidentemente le dentiere, ma questo fu chiaro solo in séguito a zio Cesare come a tutti gli altri pazienti.
Fu un altro massacro, peggio del precedente, che zio Cesare affrontò con uno stoicismo ammirevole. Ma l’idea della dentiera non lo disgustò, dal momento che metteva fine ai dolori che l’avevano tormentato fin da bambino.

Aveva una bella voce potente zio Cesare. Ai matrimoni dove era invitato arrivava sempre il momento in cui qualcuno lo invitava a salire sul tavolo a cantare stornelli e canzoni popolari. E lui senza levarsi le scarpe non si faceva pregare e si piazzava tra posate e bicchieri, attaccando il suo repertorio.
Una sera scommise con il meccanico che faceva la manutenzione della corriera che dal ponte avrebbe cantato una canzone napoletana udibile fino al grande salice dall’altra parte del paese, tre chilometri abbondanti. Mandarono un giudice accompagnato da due sfaccendati sotto il salice, si piazzarono alla spalletta del ponte e zio Cesare attaccò:
Quant’è bbella ‘a muntagna stanotteeee…
Ma alla nota culminante quando si temette che al cantante saltassero le vene delle tempie per la potenza del canto, la dentiera gli schizzò fuori con l’ultimo acuto e cadde in acqua.
La scommessa fu vinta, ma i soldi se ne andarono tutti per l’acquisto di una dentiera nuova. E già che c’era se ne fece fare due dal cavadenti-gigante: una di materiale a buon mercato per uso quotidiano, e un’altra per i giorni di festa, con un po’ d’oro sul molare del sorriso, perché le desse un tocco di verità.
Da allora zio Cesare ebbe copie di denti dappertutto, in luoghi diversi della casa, nel cassetto della scrivania, nell’armadio sotto le federe. E se andava a qualche pranzo fuori casa usava portarsene una di riserva in una scatola vuota di pastiglie Valda, perché una volta una gli si era rotta mentre mangiava una torta di noci.
Quando morì, più di cinquant’anni dopo aver messo la sua prima dentiera, la moglie gli mise in bocca nella bara quella bella col tocco d’oro, perché, con l’istinto sicuro di chi sa stare in questo mondo e anche in quell’altro, disse che in paradiso bisognava entrarci con le cose più belle che uno ha, se vuol farsi ben volere fin da subito da S. Pietro.